Quando nel novembre del 1493, nel suo secondo viaggio verso le Americhe, Cristoforo Colombo sbarcò in questa isola dalla strana conformazione da sembrare una farfalla, anche se con due ali completamente diverse tra loro, scoprì per la prima volta il gusto e il profumo delle ananas.
Era abitata da bellicose tribù caraibiche, con cui non volle scontrarsi e non lasciò insediamenti. Le lasciò, come faceva sempre con le nuove terre scoperte, un nome cattolico, dedicandola a Santa Maria di Guadalupe, in omaggio alla Vergine venerata in un monastero spagnolo in Extremadura.
A conquistarla e a trasformarla in una colonia ci pensarono una trentina di anni dopo i francesi, che introdussero con le piantagioni di canna e gli stabilimenti per la produzione di zucchero, il sistema economico della schiavitù. Tra il ‘700 e l’800 se la disputarono con gli inglesi e con i nordamericani, e solo dopo il Congresso di Vienna (1815) la Francia avrà la piena sovranità sull’isola.
Nel 1871 Guadaloupe avrà per la prima volta una sua rappresentanza nel parlamento francese. Oggi è uno dei Dipartimenti d’Outre-Mer della Francia, si parla il francese e la moneta ufficiale è l’euro. Guadalupe è un arcipelago con due isole principali, Grande Terre e Basse Terre (le ali della farfalla), separate solo da uno stretto canale lungo cinque chilometri, largo 200 metri e attraversato da tre ponti stradali.
Contradditorie tra loro anche le due città principali: Basse Terre, il capoluogo amministrativo, tranquilla città d’arte e Point a Pitre, frenetica e disordinata metropoli, con il porto principale e l’aeroporto internazionale. Rinomata per le sue storiche distillerie di rum, Guadaloupe conta tra i suoi nativi anche alcuni calciatori famosi come Liliam Thuram, William Gallas e Alexandre Lacazette.
Guadaloupe: la spiaggia
Le prime ore del mattino. Il sole già scalda. Lasciata l’auto, attraversando il palmeto, raggiungiamo il mare color smeraldo turchese. Guardando verso la nostra sinistra, sulla linea del bagnasciuga, individuiamo un’ansa che ci ispira. Nel raggiungerla incrociamo due buoi che tirano un carro a due ruote. Sul carro tre uomini in piedi ben affrancati ai bordi del mezzo, davanti ai buoi un altro uomo teso a spronare e aiutare gli animali nel pesante incedere degli zoccoli e delle ruote, sprofondati nella bianchissima sabbia tra le mangrovie.
Nella solitudine totale e nel silenzio rotto solo dallo sciacquio delle onde, quell’incontro mi ha riportata a immagini viste nei film o lette nei racconti: a 200 anni addietro, nello stesso luogo, all’epoca della schiavitù.
Raggiunta l’ispirata ansa ci godiamo il sole e i bagni in acqua tiepida: il piacere delle prime ore di vacanza.
Davanti a noi si intravede la barriera corallina. Col passare delle ore la spiaggia comincia a ravvivarsi e il sole a scottare. Mi sposto di pochi metri, all’ombra delle mangrovie. Leggo, poi mi appisolo. Le voci prima lontane poi sempre più alte mi risvegliano. Intorno diversi gruppi di persone intente nei preparativi per passare una domenica godereccia con la famiglia e gli amici. Compaiono tavoli, sedie, sdraie, frigoriferi portatili enormi, buste di cibo e bottiglie, poche d’acqua.
Accendono i fuochi, chi con barbecue, chi costruendo un braciere utilizzando pietre; tutti a raccogliere rametti secchi per appiccare il fuoco, poi ci pensa la carbonella di cui tutti sono provvisti. Giovani e anziani, donne e uomini, bianchi e neri sono impegnati a fare qualcosa, senza fretta.
Preparano i tavoli, li bandiscono e poi sfornano aperitivi a base di lime, zucchero di canna e rhum bianco che distribuiscono all’interno del gruppo; alcuni, preso il bicchiere, si dirigono in mare; seduti nel bagnasciuga, a cerchio, parlano e sorseggiano. L’odore di grigliata ti accerchia e fa venir fame. Una grande festa collettiva che prosegue per tutta la giornata.
A metà pomeriggio parte anche la musica, dal vivo. Un gruppo che suona e canta porta a ballare sulla spiaggia e sotto le mangrovie decine di persone. Una domenica del villaggio, ma sulla spiaggia.
Lungo le strade dell’isola
Dal litorale di Sainte Anne rientriamo in auto al nostro residence a Le Moule. Lungo la strada si susseguono, a destra, pascoli con mucche e poi il mare, a sinistra, pascoli, sempre con mucche, alternati a piantagioni di canna da zucchero. Tante mucche, inaspettate. Come strano è non vederle libere, ma legate con una corda sufficientemente lunga, affrancata a un albero o a un picchetto.
I terreni non sono cintati e spesso, accanto alle mucche, si vedono aironi bianchi pronti a becchettare l’insetto intento a posarsi sul muso del bovino che, placido, lascia fare. Nella loro posa e espressione pare che si intendano.
Come in Francia, come da noi, anche qui le rotatorie stradali hanno invaso il paese. Rallentano il traffico, ce ne sono dovunque e molte sono abbellite con enormi sculture. Nelle zone più agricole hanno al centro vecchi e giganteschi macchinari per la lavorazione dei prodotti, perfettamente messi a nuovo; nelle zone balneari e turistiche, le opere esposte, anch’esse enormi, sono una via di mezzo tra arredo urbano e arte modernista.
Agli angoli degli svincoli delle strade principali si vedono: venditori di cocco che tagliano il frutto e ne offrono il succo; uomini su sgabello che espongono granchi legati a bastoni di legno; ambulanti che, intorno a mezzogiorno, si avvicinano alle auto proponendo del cibo preparato e confezionato alla meglio. Questi ultimi sono molto apprezzati dai camionisti che viaggiano su mezzi addobbati più del presepe; lo si percepisce perfettamente quando si fa sera e si viene abbagliati da fari che illuminerebbero uno stadio da calcio.
Se un camion incrocia un altro camion o trattore, i clacson, trombe da orchestra, cominciano autonomamente a suonare dando vita ad una prova acustica non sempre intonata; una forma di saluto tra mezzi.
Un altro fatto inaspettato è la quantità di ciclisti amatoriali o professionisti, comunque tutti con la loro bella divisa, incrociati lungo le strade, comprese quelle che passano per la foresta tropicale.
La foresta tropicale, la pioggia, il vulcano e il cioccolato
Già la foresta tropicale, bellissima. L’abbiamo attraversata una prima volta sotto una pioggia torrenziale e, senza poter scendere dall’auto, ci è apparsa fantastica. Verdissima, di un verde a noi sconosciuto, con piante da enormi foglie e fitta, molto fitta.
Successivamente, in una giornata che lasciava qualche finestra senza pioggia, addentrandoci per raggiungere una cascata, abbiamo avuto modo di apprezzarne tutto il fascino e la forza.
La stessa pioggia torrenziale ci ha impedito di salire sulla Vielle Dame, il vulcano ancora attivo al centro di Basse Terre.
Quel giorno, modificando i piani stabiliti la sera precedente, abbiamo visitato la Maison du cacao. Interessante e istruttivo soprattutto per le degustazioni delle varie qualità e manipolazioni.
Le Moule e Anse Bertrand
Le Moule è una cittadina né piccola né grande e si trova nella parte orientale di Grande Terre. Si affaccia sull’Atlantico ed è un avamposto per gli alisei. La parte vecchia, non antica se consideriamo il tempo italiano per concepire l’antico, è attraversata da due vie parallele con opposti sensi di marcia e tante piccole traverse che le collegano.
Al centro la Piazza con l’Hotel de Ville e la chiesa principale dal grande soffitto azzurro. Tutta la vita si svolge in questi ambiti colorati dai negozi di ogni tipo e dalle bancarelle. C’è una parte più moderna all’uscita della città verso ovest, con tanto di medio centro commerciale, mentre verso nord-est, in direzione Saint Francois, vi è il porticciolo in parte fluviale con barche da pesca e varie attività sportive, tra cui un campo di pallanuoto. In tutta l’isola vi sono molti impianti sportivi di varie discipline, moderni, ben attrezzati e soprattutto molto frequentati.
Ad Anse Bertrand, passeggiando verso il centro cittadino, ci siamo ritrovati davanti ad una chiesa evangelica dove si stava svolgendo una funzione religiosa. Era stracolma di fedeli, che occupavano anche parte del sagrato. Oltre che dalla quantità delle persone presenti, considerando le dimensioni della cittadina, siamo stati sorpresi dalla loro eleganza e dignità. Tutti indossavano vestiti puliti e stirati. Lasciata la chiesa seguendo il lungomare si raggiunge un piccolo fiordo, canale di scambio di acqua dolce salata.
Momento magico: per le ultime luci naturali nella notte che avanzava, per il bianco quasi fluorescente delle onde che si rompevano sugli scogli.
I cimiteri della Grande Terre
Non lontano da Le Moule, sulla strada verso Point a Pitre, sostiamo casualmente a Morne a l’Eau. Nulla di particolare tranne il cimitero fatto di casette tutte piastrellate a scacchi bianchi e neri che seguono l’andamento collinare del terreno e che ospitano le spoglie familiari. Una casetta, una famiglia.
La stessa tipologia cimiteriale si trova ovunque, ma a Morne a l’Eau è molto evidente, sia per la prossimità alla via principale, che per la grandezza. Non lontano, verso Anse Bertrand lasciando la strada, percorrendo uno sterrato, si raggiunge una spiaggia dove alcuni decenni fa, dopo una mareggiata, affiorarono ossa umane. Scavarono e recuperarono centinai di resti. Quel luogo si chiama ora “il cimitero degli schiavi”.
Osservando il mare, a pochi passi, deduci che tutti quei cadaveri si siano spiaggiati portati dalle onde, morti sulle navi negriere per malattia o naufragio, e trasponi il tuo pensiero a quello che accade oggi nel Mare Nostrum. Ma non è così. Sono tombe e resti di uomini massacrati nelle piantagioni.
Si distinguono chiaramente due tipologie di sepolture: quelle antecedenti al 1794 e quelle successive al 1802, con una tregua temporale di otto anni, quelli trascorsi dall’abolizione della schiavitù dopo la rivoluzione francese, all’arrivo di Napoleone, quel brav’uomo, che pochi anni dopo la ripristinò. Fu cancellata definitivamente nel 1848, come viene ricordato nel Memorial Acte, un imponente e moderno luogo espositivo, inaugurato nel 2015 nella baia di Pointe a Pitre.
La varietà dei paesaggi e la cucina
Le condizioni meteo, sempre variabile, nuvole sole, pioggia sole, mandano quasi sempre i nostri piani in frantumi e così, adeguandoci, ci dirigiamo di volta in volta dove pensiamo di trovare qualcosa da gustare.
Vagando per l’isola su strade di giorno trafficate, abbiamo raggiunto varie località delle due isole, Basse Terre e Grande Terre, che sono collegate unicamente a Point a Pitre.
A Nord ci sono le zone più agricole con coltivazioni intense di canna da zucchero, di banane e di noci di cocco, oltre ai pascoli di bovini e caprini. Qui abbiamo visto le case più belle e curate dell’isola. Sono in stile coloniale su più piani abbastanza simili una all’altra ma con colori diversi. Sono posizionate in cima a collinette, come a dominare la propria tenuta.
Nella parte alta di Basse Terre ci sono spiagge dal litorale lunghissimo, come a Grande Anse dove trovi qualche mangrovia in meno a favore di palme e di altre piante dai fiori coloratissimi.
La sabbia non è bianca ma color “sabbia”, appunto. Il posto è “strutturato”, al parcheggio delle auto una decina di ristorantini offrono menù a prezzo fisso proponendo gli stessi piatti. All’ora di pranzo, in giornate belle, è difficile trovarvi posto, è necessario attendere che si liberino dei tavoli. E nell’attesa, tra sole, bagni e lettura, si può osservare il volteggio di grandi uccelli che dall’alto del cielo planano sulla spiaggia come rapaci, ma non lo potevano essere per la forma allungata e per il modo di batter le ali. Era uno stormo di pellicani, grossi e grigi dall’aspetto poco simpatico.
Abbiamo visitato le città più importanti, alcune molto turistiche come Saint Francois, Le Gosier, Basse Terre e altre, più fuori mano, arricchite sempre da una bellezza ambientale, marina o terrestre, travolgente. Punti di costa Ovest di Basse Terre, tra Pointe Noir e Deshaies, mi hanno ricordato alcuni golfi mediterranei, triestini o montenegrini. Già perché in Guadaloupe vi è una diversità floristica notevole: dai tropici alle Prealpi.
La quantità d’acqua portata da torrenti e poi fiumi che arrivano al mare in corrispondenza di città e villaggi portuali, rende tutta l’isola verde e lussureggiante. Hai la sensazione che qualsiasi seme pianti, questo attecchisca. Infatti, nei loro mercati trovi frutta e ortaggi di ogni tipo, oltre ai caraibici, anche peperoni, zucchine, pomodori e cetrioli che credo, a questo punto della mia vita, siano in assoluto gli ortaggi più coltivati al mondo, non li amo particolarmente.
Queste varietà di verdure, però, non le trovi facilmente nei piatti proposti dai ristoranti. Come entrata offrono spiedini di ogni tipo: polpettine di merluzzo o gamberi; sanguinacci speziati, alcuni molto buoni; cruditè, insalata. I piatti forti sono composti da pesce o carne cotti principalmente alla griglia oppure, in umido alla creola o, una variante, alla colombo (con una miscela di spezie indiane, simile al curry).
Come accompagnamento, riso e verdure crude, insalata pomodori e cetrioli (ancora) oppure, una radice trattata come una patata e gratinata con o senza formaggi locali, prodotti dal latte delle tante mucche e capre dell’isola.
La cucina, tutto sommato, è abbastanza ripetitiva e l’offerta è simile per tutti. Nei ristoranti lavorano principalmente donne, poche, che dandosi un gran daffare gestiscono, con i loro tempi, gli ospiti. Forse è anche questo matriarcato culinario che impedisce un’innovazione o una diversità tra i piatti.
Guadaloupe è chiamata l’isola a farfalla che da sempre è il simbolo dell’anima umana. La farfalla appena uscita dalla crisalide scarica una goccia di escrementi accumulati durante il periodo di trasformazione nel bozzolo. Questa goccia in genere è di colore rosso, molto simile al sangue. Simbolicamente se ciascuno di noi deve liberare la propria farfalla, dovrà scarificare una goccia di sangue, lasciando andare il passato e rivolgere lo sguardo all’orizzonte.
Uno sguardo verso l’infinito come il mare cristallino di Guadaloupe. Perché ogni viaggio alla fine è una rinascita, un viaggio che facciamo dentro noi stessi.