Parlare di alloggio in periodo di pandemia e reclusione è come gridare il nome del mare mentre ci si è in apnea con tutto il corpo. Le labbra si muovono ma il suono viene smorzato dal filtro dell’acqua.
Rintanati a forza nelle mura delle nostre abitazioni ne sentiamo il peso stringerci sui fianchi. Casa comincia a prendere i contorni di un confine invalicabile, lasciando sbiadire i ricordi del tempio di quiete in cui eravamo abituati a rifugiarci.
Forse proprio per questo, paradossalmente, oggi può essere il momento ideale per riflettere sui luoghi che sono stati davvero casa, per una notte, un anno, qualche istante. La paralisi apparente della normalità ci dona il privilegio consolatorio di un tempo utile per guardare le cose con un distacco insolito, scoprendone nuovi particolari.
Mi tuffo in questo esercizio della mente: chiudo gli occhi e riassaporo nel buio dei ricordi i luoghi dell’anima chiamati casa. Ritrovo davanti tende flosce appese ai rami e casupole di fango illuminate dal tramonto arancio, appartamenti caotici nelle borgate universitarie e palafitte in legno a strapiombo sul mare. Nel silenzio degli occhi chiusi vedo il filo delle immagini turbinare in giostra.
Ognuno di questi luoghi porta con sé una storia, un racconto in giorni fatto di incontri e attimi sfiorati. Tra le tante ce n’è in particolare una che si fa spazio e resta appesa nei pensieri come fumo caldo. Parla di un disco che si rompe e di un tipì indiano (la tenda dei nativi d’America). La prendo tra le mani, sorridendo appena mentre ne avverto il profumo di nuovo addosso.
Eccola, la storia.
Per un periodo relativamente lungo della mia vita recente ho fatto l’avvocato in cravatta. Di quelli in tiro dalla mattina alle nove fino a tarda sera, aperitivi in centro nel weekend e appuntamenti tramite segretaria. C’è stato un momento in cui addirittura mi ero convinto che lo stile patinato e chic potesse durare una vita. Poi invece un bel mattino mi sono alzato, ho infilato un calzino di filo di Scozia con buco amletico sull’alluce e ho capito che lo stile patinato non sarebbe arrivato all’autunno.
Saranno state le milioni di possibilità che ho visto stampate sull’alluce sporgente, o forse la piacevole ebbrezza dell’aria ai piedi che ha illuminato la stitichezza algida della vita in camicia. Non so bene. Fatto sta che un paio di settimane più tardi saluto le luci al neon dello studio milanese e, tempo di imballare le quattro cianfrusaglie lasciate nella stanza singola poco chic al Giambellino, mi ritrovo a fare l’autostoppista estivo tra le strade di mezza Italia.
Da avvocato in carriera a girovago patentato, dalla cravatta alla collana di fiori finti, dalla camicia di seta stirata al camicione hawaiano sbottonato sul petto. Un disco si era appena rotto e uno decisamente più progressive aveva preso il suo posto.
Girovago fino ad arrivare a un raduno hippie tra le Alpi friulane, noto a tutti i fricchettoni più incalliti col nome mistico di Rainbow Gathering, incontro arcobaleno. Qui, nel silenzio astrale della natura più solitaria, scopro il piacere profondo del contatto con la terra e la pace mitologica dell’essenziale.
Nella cornice dei picchi color ambra il simbolo dell’equilibrio appena scoperto viene incarnato proprio dall’alloggio: un tipì indiano in tessuto duro fatto di pali in legno intrecciati con corde di bambù, dentro al quale dormiamo in una ventina stesi su stuoie di canne e coperte. È simile a quelli visti prima solo in film western o cartoni Disney come Pocahontas, con un cerchio di pietre bianche al centro a delimitare il punto dove far ardere la legna e in alto il buco per far uscire il fumo.
La sera, dopo cena, i più anziani intonano tristi mantra in lingue sconosciute accompagnati dal ritmo rapido dello scoppiettio del fuoco. Sulle note di quelle melodie antiche ci si addormenta tutti attorno, rintanati sotto sacchi a pelo e coperte di fortuna. Il giorno seguente i più mattinieri tirano fuori dalle sacche di iuta caffè e tè e li lasciano scaldare in pentolini di rame sulle braci rimaste calde dalla notte. Ricordo ancora i risvegli soffici accompagnati dal sapore denso di tè chai appena filtrato.
Sono stato ospite della “tribù arcobaleno” per circa tre settimane, mangiando insieme a tutta la comunità attorno al fuoco e contribuendo col mio lavoro alla sussistenza del gruppo variopinto, proveniente da mezza Europa. In questo tempo, il tipì è stato il simbolo di una casa passeggera ed essenziale, fugace eppure resistente. A me che venivo dallo scintillio frenetico della vita cittadina, ha restituito il ritmo calmo di una famiglia ancestrale, dedicata a curare i piccoli angoli di una vita realmente insieme. Sul tessuto color panna della tenda ho lasciato impresse le manate di una lentezza ritrovata e la consapevolezza che nel buco del calzino, qualche settimana prima, avessi visto giusto.
Ancora oggi, ripensare a quel tipì indiano tra le alpi friulane mi aiuta a sentire addosso il valore di un luogo dove vivere.
Con gli occhi ancora chiusi capisco che posti così, aggrappati nei ricordi, saranno la bussola da utilizzare per riscoprire il senso autentico delle cose quando questo tempo sospeso sarà finito. Anche quello di un luogo da chiamare casa.