“Il tramonto era pieno di soldati ubriachi di futuro
fra i dadi, le bestemmie e il sogno di un letto più sicuro,
ma quando lui usciva dalla tenda non lo osavano nemmeno guardare
sapevano che c’era la sua ombra sola davanti al mare.
Poi l’alba era tutta un fumo di cavalli gridi e risate nuove
dove si va passato il Gange, generale parla dicci solo dove
e lui usciva dalla tenda, bello come la mattina il sole
come in una lontana leggenda, perduta chissà dove”.
I primi versi di Alessandro e il mare di Roberto Vecchioni echeggiano nella mente, mentre con uno zaino a testa scivoliamo sulle grandi piastrelle lucidate del salone principale dell’aeroporto “Alessandro Magno”, l’aeroporto di Skopje, capitale della Macedonia (che da poco ha cambiato nome in Repubblica di Macedonia del Nord).
A Skopje, scopriremo nel corso dei giorni successivi, sembra che tutte le grandi opere rendano omaggio al personaggio più famoso nella storia di una regione così piccola e dal nome, per noi italiani, così buffo.
Anche la piazza principale della capitale, rotonda ha un’imponente statua del giovane generale a cavallo al centro di una grande fontana. E chissà come si chiama la stazione dei treni, oppure lo stadio di calcio, o ancora una qualche discoteca del centro città.
La Macedonia è però famosa per almeno altri due personaggi e questo lo capiamo uscendo dalle porte automatiche dell’aeroporto quando, transitando per qualche secondo in un’afa terribile, saliamo in fretta sul primo taxi tra quelli fermi in attesa. Sul cruscotto troneggiano il santino di Madre Teresa di Calcutta e la figurina di Goran Pandev fotografato nell’anno del “triplete” dell’Inter.
Verso il centro città
L’autista ha occhi azzurri quasi infantili ma incastrati in un viso dai lineamenti decisamente più duri. Pochi capelli e barba rada, una maglietta nera attillata e una sigaretta in bocca. È appoggiato alla portiera dell’auto quando, vedendoci, si alza, ci aiuta a caricare e, dopo averci chiesto la destinazione, mette in moto e ha cominciato il viaggio.
Un viaggio lungo strade larghe ma piuttosto desolate, ai cui cigli si alternano molti campi incolti a poche case che ci sembrano abbandonate. Man mano che ci avviciniamo alla città, aumenta la frequenza dei grandi cartelloni pubblicitari delle grandi marche europee e americane, ma gli slogan e i nomi sono tradotti e traslitterati in alfabeto cirillico.
Trascorsa non più di mezz’ora arriviamo a destinazione: l’autista si ferma in un piccolo parcheggio nei pressi della fermata principale degli autobus.
– Da qui dovete proseguire a piedi, siete a non più di cinque minuti.
Ce lo dice mescolando parole inglesi a termini nella sua lingua e agevolando la comunicazione con ampi gesti delle mani ed eloquenti espressioni dello sguardo che rivelano zelo nello svolgere la sua professione ma tradiscono stanchezza e malinconia. Prende i soldi e ci saluta sorridendo, con un gesto della mano. Fra l’indice e il medio, ancora una volta, spunta una sigaretta.
La città divisa in due
Sono da poco passate le otto di sera quando usciamo dall’ostello e ci incamminiamo verso la parte centrale della città. Un paio di vie e un incrocio da attraversare, prima di imboccare una strada pedonale che costeggia il Vardar, il fiume che taglia a metà la città, dividendola fra macedoni da una parte e albanesi dall’altra.
Fra musulmani da una parte e cristiani dall’altra. Fra un’area che richiama, o perlomeno prova a richiamare, una specie di stile vagamente europeo e votato alla mondanità e un’area in cui è presente quello che ancora oggi è il più grande bazaar dei Balcani, se si esclude Istanbul.
Il bazaar, che si trova nell’unica parte della città vecchia rimasta indenne dopo il terremoto del 1963, è un immenso dedalo di vie pedonali che scendono e risalgono inebriando i passanti dei molteplici odori che una tradizione millenaria di spezie è in grado di regalare e dei colori sgargianti che l’estetica bizantina e ottomana ha spinto fino ai giorni nostri.
È proprio in una di queste viuzze che decidiamo di cenare, infilandoci in un piccolo ristorante che offre non più di quattro o cinque tavolini. Il cameriere, uno dei due dipendenti del posto, ci viene incontro con un sorriso impostato che non nasconde un certo imbarazzo. Skopje non è una città turistica, probabilmente la nostra presenza lo stupisce.
Ci prepariamo ad affrontare insormontabili problemi di lingua che vanno dal non capire se il cameriere ci sta chiedendo se abbiamo prenotato o ci sta invitando ad accomodarci fino al non avere idea di cosa sia scritto sul menù; problema, quest’ultimo, che per fortuna viene risolto da un gruppo di francesi seduti di fianco a noi.
Indichiamo i loro piatti, facendo segno che desideriamo la stessa cosa. La stessa cosa significa quattro bottiglie di coca-cola, quattro piatti contenenti piccole salsicce speziate e cipolle e un piatto unico, da condividere, della tipica insalata macedone: un concentrato di cetrioli, pomodori sommerso di un formaggio grattugiato che ricorda la Feta greca. Il tutto per la modica cifra di undici euro.
Usciamo dopo un’oretta, con la pancia piena. Abbiamo cenato nel più grande Bazaar dei balcani pagando meno di tre euro a testa.
Il ponte arcuato che scavalca il fiume all’altezza della piazza principale è costellato di lampioni e piccole statue; da un lato un edificio bianco e imponente alla cui sommità svetta una bandiera nazionale; dall’altra parte, la via pedonale ricca di locali serali che in teoria avrebbe tutta l’aria di essere la maggiore attrattiva della capitale per ciò che riguarda la vita notturna.
In teoria, perché una volta attraversato il ponte ci troviamo a camminare su una strada semivuota, costeggiando locali semivuoti o, peggio, chiusi. È un’atmosfera ferma, quasi spettrale, che ricorda lontanamente la sensazione di immobilità di un lungomare di un paesino ligure a metà febbraio. Poche persone, rifiuti accatastati in un angolo, fioriere con poca terra secca lungo la passeggiata.
Conversazioni con i locali
Entriamo in un piccolo baracchino, che si è improvvisamente presentato davanti a noi, facendo capolino da dietro a un albero lungo la strada. La costruzione esterna sembra provvisoria, l’arredamento sembra provvisorio.
Anche la donna che da dietro al bancone ci saluta e ci fa segno di entrare, sembra lì per caso. E invece è lì perché quello è il suo locale e perché i signori anziani sparpagliati sui tavolini presenti, sono i clienti abituali da parecchio tempo tanto che oggi sono diventati i suoi amici.
Sono uomini che c’erano quando nel locale al posto di quattro giovani turisti entravano i militari e fuori cadevano bombe. Sono uomini di diverse origini: c’è un bosniaco, c’è un albanese e c’è persino un turco.
Ma il fiume è uno solo, può dividere la città al massimo in due parti; per questo, gli abitanti hanno imparato a convivere fra di loro, dimenticando le religioni e le etnie a forza di maneggiare le stesse banconote, di masticare lo stesso tabacco e sedersi nello stesso bar.
Hanno imparato a lanciarsi sguardi di complicità nell’apprezzare le forme della barista, l’unica donna nel locale. Hanno imparato anche a non aver più paura di chi entra nel bar, infatti mentre ci apprestiamo a sederci sulle quattro sedie sbilenche che la donna ci ha indicato, uno dei presenti si avvicina a noi allargando le braccia ed esclamando qualche parola nella sua lingua.
La sua voce tradisce una decennale dipendenza dal fumo, ma è entusiasta e ansiosa di uscire, di incrociarsi a voci nuove, a voci giovani che nulla sanno di quel vecchio e di cui tutto, quel vecchio, sembra voler sapere.
– Hello! Where are you from?
La voce, impastata dagli anni e dal fumo, si era subito resa conto che non eravamo del posto. Del resto, in quel locale probabilmente frequentato soltanto dai soliti abituali avventori, era parecchio tempo che non entravano volti nuovi.
Italia, rispondiamo in coro. Sembriamo quattro scolaretti in gita a Parigi che rispondono al giovane e simpatico panettiere di una via del centro che ci sorride mentre ci porge un croissant a testa.
Il panettiere – l’unica somiglianza fra l’immaginario panettiere e l’uomo che abbiamo di fronte è forse la maglietta bianca e un po’ sgualcita – si scioglie in una sonora esclamazione di giubilo.
– Italia! Bellissimo paese, io parlo un po’ di italiano! Di quale città?
Quando rispondiamo “Milano” – questa volta uno di noi quattro si è autoeletto portavoce del gruppo ed è stato l’unico a parlare, con il benestare degli altri tre – l’uomo ci sorride ancora una volta, dicendo di essere innamorato del Duomo.
– Bellissima cattedrale! Sono stato a Milano, una volta in vacanza nel 1976, con mia ex-moglie. Oggi lei vive con altro uomo. Bastarda. Pu… puttana, dite così?
Stavolta ridiamo noi e confermiamo, pensando a quanto tempo è passato da quel 1976. C’era ancora Tito al governo. Ed è incredibile pensare come quest’uomo, che ha imparato l’italiano durante una vacanza e poi – come ha appena aggiunto – durante l’anno precedente in cui ha vissuto in Italia per lavoro, se lo ricordi ancora piuttosto bene.
È bosniaco di origine e musulmano di religione, ma vive a Skopje dagli anni ’60. Si chiama Kaciar – anche se, a dirla tutta, non so come si scriva – e ha appena deciso di abbandonare il suo tavolo per sedersi con noi.
– Cosa pensi di Tito? Uno di noi quattro si sbilancia, facendo quella che è una delle domande più scomode, soprattutto se stai parlando con un bosgnacco (i bosniaci musulmani) e contemporaneamente nel locale sono seduti un macedone, un albanese e un croato.
– Ah Tito! Grande uomo, grande comandante! Quando Tito era al governo c’era lavoro per tutti, oggi no. Quando Tito era al governo non c’era criminalità, oggi sì. E poi quando Tito è morto, nel 1980, mia moglie mi ha lasciato! Tito eroe!
– E di Stalin cosa pensi?
– Stalin? Merda!
La sua risposta non lascia adito a ulteriori repliche.
– E di Lenin? Questa volta sono io ad azzardare.
– Lenin? Merda!
Come con Stalin, esattamente come con Stalin. L’uomo, innamorato di Tito, sovrappone Stalin e Lenin in un unico e smisurato odio viscerale. In un colpo di tosse rauco che lo ha assalito nelle due occasioni in cui ha dovuto esclamare “Merda!”. È un colpo di tosse contro l’unione sovietica e una lacrima di malinconia rivolta a Josip Broz, rivolta all’uomo che – a suo dire – aveva portato pace e prosperità nella Jugoslavia.
Per coronare la gloria del momento e per attribuire una maggiore importanza alle sue dichiarazioni che, lo ammetto, ci avevano lasciati un po’ stupiti, si alza e va a prendere altre quattro birre e le appoggia al nostro tavolo.
– Queste le offre Tito!
Sono quattro Skopsko, la birra locale più famosa. “Skopsko, tutto è possibile” è lo slogan pubblicitario illuminato al Neon che si accende a intermittenza sul frigorifero.
Brindiamo, perché non possiamo non brindare. E brindiamo con lui e con tutti i presenti, barista compresa.
Fuori è buio, e il fiume Vardar scorre lento, stanco e con una portata idrica che, immaginiamo, in questo periodo dell’anno raggiunge il minimo. Ci sediamo sul muretto dall’altro lato della strada pedonale, le gambe che si dondolano al di là, sopra al fiume.
Questa sera non c’è luna, o perlomeno noi non la vediamo. Potrebbe anche essere nascosta dalla collina che si alza a nord e dalla cui cima si può ammirare tutta la città, spezzata in due dal Vardar.
Sorseggiamo le quattro bottiglie di Skopsko, direttamente dalla bottiglia, provando a immaginare Kaciar, con la sua maglietta bianca sgualcita, al Café de Flore a Parigi, mentre porge i croissant alla crema a quattro ragazzini in gita scolastica.
– Hi, where are you from?
Questa volta non è Kaciar a parlare, rimasto nel locale a bere con i suoi compagni. È un uomo molto più giovane ma con una voce se possibile ancor più increspata dal fumo, che è arrivato ciondolando verso di noi percorrendo la via pedonale dalla piazza principale, quella dove sorge la statua di Alessandro Magno a cavallo.
– Italia, Milano. Il portavoce di noi quattro ha risposto, prevedendo con un buon anticipo l’eventuale domanda successiva a proposito della nostra città di origine.
– Milano! Conosco Milano! Io parlo un po’ italiano, sono stato in tanti posti in Italia. Sono venuto in Italia nel 1991 e ci sono stato qualche anno.
Mentre parla, ci rendiamo conto che probabilmente lui è uno di quelli che sono sbarcati a Bari nell’estate del ’91, durante l’incredibile ondata migratoria che sulla nave Vlora portò fino alla costa pugliese ventimila esseri umani.
– Avevo tredici anni, ero con mio fratello che ne aveva diciassette. Da Bari abbiamo cominciato a muoverci, cercavamo lavoro, ma se sei albanese non è facile. Però italiani mi piacciono! Sai no? Italiani e albanesi, una faccia una razza! Bari, Brindisi con autobus, poi treno, stazione.
Ancona, Firenze, Bologna, Padòva – l’accento, pronunciato sulla sillaba sbagliata, conferiva un non so che di ancor più vero alla narrazione dei suoi peregrinaggi – Venezia, Milano!
I suoi occhi, mentre parla, brillano, ma non si capisce se per la commozione del ricordo o se a causa del loro naturale colore azzurro che luccica sotto i lampioni della strada. Parla veloce, senza usare gli articoli, e non si ferma mai, quasi fosse ancora su quei treni di cui ci parla.
– Niente biglietti, mai, ma con controllori italiani non è pericoloso! Documenti falsi, ce li davano alcuni amici già in Italia. Entravamo nel ristorante giusto, un occhiolino, e quando ci davano la pizza, sotto il piatto trovavamo i documenti. A Firenze ero Luigi Esposito, A Bologna ero Mario…
Il cognome bolognese, ahinoi, non se lo ricorda. Fa una pausa, e apre una bottiglia di plastica che contiene una bevanda giallognola. Ce la offre.
– È Rakija, assaggia!
Un sorso, brevissimo, a testa, ci basta. La Rakija è un distillato realizzato con diversi frutti che normalmente raggiunge una gradazione alcolica pari al 40%, ma che se viene distillato in casa, può anche superare il 60%.
La sua, probabilmente è stata fatta a casa, perché – se è vero che lui si abbandona a lunghe sorsate – noi stentiamo a bagnarci le labbra.
Mentre beviamo, il racconto va avanti e si fa sempre più intenso ma contemporaneamente impreciso e carico di lacune: il ragazzo, di cui non sappiamo il nome (il nome vero, si intende, perché quelli falsi li sappiamo quasi tutti), alterna momenti di grande concitazione, a momenti di amara ironia, fino a momenti di durissima accusa politica tanto contro lo stato albanese quanto contro quello italiano. Stato, quest’ultimo, in cui è quasi certamente ancora ricercato.
– Italiani albanesi, una faccia una razza!
La bottiglietta d’acqua con la Rakija è quasi finita. Se l’è bevuta quasi tutta e adesso l’effetto comincia a farsi notare.
Quello che inizialmente era un racconto – non sappiamo quanto sincero ma perlomeno plausibile – ora è diventato un’accozzaglia confusionaria di frasi sconnesse il cui spettro di argomenti varia dalle accuse al governo fino all’elogio del cibo italiano, passando per un nostalgico rimpianto verso una donna conosciuta in Toscana, della cui mancanza oggi sembra consolarsi con le prostitute che lavorano a poche centinaia di metri da dove siamo seduti e di cui ha cominciato a illustrarci le tariffe.
– Ottimi prezzi, e ottimo lavoro! Provate!
Annuiamo, non ce la sentiamo di deluderlo. Quello che sappiamo del suo racconto frammentario e privo di una conclusione è che, a un certo punto della sua vita, ha evidentemente deciso di abbandonare l’Italia e di tornare – se non in Albania – perlomeno dalla parte opposta dell’adriatico.
Sorridendo e guardandoci lo salutiamo, vedendolo allontanarsi a bordo degli ultimi sorsi di Rakija rimasti e all’ombra della sua barba bionda e rada che odora di marcio ma che – ne sono sicuro – nasconde ferite profonde.
Profonde quanto quelle di Kaciar e di molti altri come loro; ferite che né un distillato né una lunga, intensa e strampalata conversazione con quattro ragazzi arrivati lì con la scanzonata pretesa di conoscere il mondo, potranno mai rimarginare.