Qualche giorno fa ho visitato il museo archeologico di Lubumbashi, la seconda città più popolosa della Repubblica Democratica del Congo; un palazzone monolitico a quattro piani agghindato in uno stile industriale da periferia popolare, con le mura esterne sciupate dal tempo e dalla incuria.
Nonostante l’apparenza fosse quanto di più lontano immaginabile dall’ambiente artistico, all’interno ho scoperto alcune rarità pre-coloniali che mi hanno lasciato piacevolmente sorpreso.
Strumenti musicali millenari, statuette votive in legno finemente intagliato e tele in tessuto naturale con su raffigurate forme geroglifiche chiaramente riconducibili ad un sistema di scrittura alfabetica. Poi ancora maschere cerimoniali in rame, utensili da cucina in ferro finemente decorati e testimonianze di una scienza medica e astronomica estremamente raffinata.
Su tutti mi ha stupito la copia di un osso di babbuino con una scaglia in quarzo proveniente da un villaggio poco distante di nome Ishango, su cui erano state intagliate delle line geometriche con sequenze multiple. Il reperto, conosciuto come il “bastone d’Ishango”, risale a circa 20.000 anni fa e, secondo i più recenti studi etno-matematici, rappresenta la prima prova al mondo di un sistema di calcolo algebrico, antesignano dei ben più conosciuti abachi mesopotamici di circa 14.000 anni successivi.
Uscire dal museo e tornare a vivere la cruda realtà congolese è stato una sorta di shock. Le strade bitorzolute sommerse da bottigliette in plastica, le casette in lamiera accatastate una sopra l’altra a mo’ di un Tetris malriuscito, gli sguardi scarni dei bambini di strada accasciati tra le erbacce delle aiuole nei fumi della colla mattutina.
Com’è potuto succedere che la culla del calcolo matematico si trasformi in una nazione dove il 25% delle persone non ha cognizione degli strumenti algebrici più elementari? Come si è passato da una raffinata conoscenza astronomica e medica, a una dipendenza generale da medicinali chimici e tassi di malnutrizione infantile che sfiorano il 40%? Che fine ha fatto il bagaglio di tradizioni e storia che dovrebbe costituire l’ossatura della coscienza popolare, divenuto invisibile nei meandri di un’attrazione maniacale verso l’Occidente?
Su tutto: cosa è successo a questa terra, tanto ricca quanto complessa, che fino a poco meno di centocinquant’anni fa sembrava custodire la perfetta sintesi di un sistema sociale fiorente e sostenibile?
Mi ci sono voluti alcuni giorni e vari incontri arricchenti, con artisti e professori, per arrivare ad una risposta soddisfacente: è successo che è arrivato “dio”.
L’invasione dei belgi nel paese, sotto l’egida del re Leopoldo II, non ha portato guerra, distruzione e schiavitù. O almeno, non solo. Prima di tutto ha portato un nuovo sistema etnografico attraverso cui regolare le dinamiche socio-culturali delle comunità locali; con alla base e all’apice del sistema sempre lui: il dio bianco, salvatore e redentore.
Gli invasori belgi sono riusciti nella macabra e raffinata arte di recidere il cordone ombelicale che ha connesso per secoli le popolazioni indigene alla propria storia, alla propria terra, ai propri antenati, e sostituirlo con i meccanismi antropologici che sin dalla prima epoca cristiana appartengono alla nostra storia europea.
In poco più di cento anni, la Bibbia ha sostituito i racconti di una cosmogonia antica ed elaborata. In meno di cento anni, il lavoro salariato ha sostituito il ciclo produttivo naturale legato ai campi e all’allevamento. In meno di cento anni, le più di trecento lingue parlate nel paese sono state sostituite da quatto dialetti fortemente francesizzati, e il francese è divenuta l’unica lingua ammessa nelle scuole e nei luoghi pubblici.
Osservare la storia recente congolese vuol dire guardarsi allo specchio e trovarci dentro una colpa che ci avvinghia tutti.
La disuguaglianza, ovunque, nasce dall’oppressione culturale, dal peso di un pensiero reso dominante. Nella mistificazione e sostituzione della cultura congolese si legge il simbolo di questo meccanismo antico e violento. La “rottura” della storia ancestrale di queste terre rappresenta l’esempio nitido dell’aggressione etnica operata come strumento di soggezione economica.
Il punto che rabbrividisce è che tutto questo è cominciato poco meno di centocinquant’anni fa e continua tutt’oggi. Gli effetti della sostituzione culturale sono impressi nelle maglie larghe di un sistema sociale instabile e corrotto, inghiottito nello smarrimento di una identità altra.
Il Congo è il riflesso di una storia contemporanea che ha fatto dell’alienazione collettiva il modello per mantenere uno status quo profondamente ineguale.
La speranza è che l’arte e l’attivismo locale rappresentino la macchina del tempo che permetteranno a questo paese di ritrovare le proprie radici nascoste. E a noi di sentirci finalmente attratti dalla diversità ancestrale, lontani dalla morbosa necessità di mascherarla.
>> immagine di copertina: opera di David Shongo tratta da Blackout Poetry, 2019 <<