Piazza Sant’Eustorgio è uno dei più gradevoli angoli di Milano. Ci si arriva lasciata la Darsena dei Navigli e percorrendo corso di Porta Ticinese verso il centro della città. Subito sulla destra c’è uno slargo con una pavimentazione in ciottoli e lastre di pietra, un’ordinata fila di case, un giardino centrale con alberi e panchine, e sulla sinistra una chiesa romanica in mattoni rossi.
La storia della basilica
La chiesa, o meglio la basilica, ha una storia antica e racchiude tesori d’arte, ma prima di entrare a scoprirli guardate con attenzione la colonna tra la chiesa e il giardino, sopra c’è una statua di un santo con un grosso coltello conficcato sulla testa. Rappresenta Pietro Rosini da Verona (1206-1252), predicatore domenicano e deciso persecutore degli eretici, che dal 1233 presiedeva il Tribunale dell’inquisizione a Milano, allora collocato nel convento accanto alla chiesa di sant’Eustorgio.
Pietro non era un personaggio facile. Paladino della Cristianità contro le eresie e le stregonerie era un giudice inflessibile e le sue condanne comportavano, quando andava bene (le presunte streghe venivano bruciate nella piazza dietro alla basilica), esilio, confisca dei beni e distruzione delle eventuali proprietà non alienabili.
A farne le spese fu, tra i molti, un certo Stefano Confalonieri di Agliate, ricco e cataro, che nell’aprile del 1252, alla vigilia del processo che lo vedeva imputato di eresia, organizzò un agguato all’inquisitore che stava rientrando a Milano da Como.
I sicari non andarono sul sottile e massacrarono il domenicano con una mannaia, due fendenti, prima alla testa poi al petto. Il martirio gli fruttò la venerazione popolare e un anno dopo, papa Innocenzo IV lo canonizzò santo. I resti del suo corpo sono conservati all’interno della basilica in una monumentale arca di marmo di Carrara, intarsiato tra il 1335 e il 1339 dal maestro pisano Giovanni di Balduccio.
La cappella Portinari
L’arca, un capolavoro della scultura italiana del Trecento, è ricca di finissime decorazioni e richiama lo stile gotico di alcune opere di Nicola Pisano (1220 – 1284), come l’arca di San Domenico a Bologna o i pulpiti nel Duomo di Siena e nel Battistero di Pisa.
Gli otto pilastri in marmo rosso di Verona che reggono il sarcofago sono abbelliti da altrettante statue. Sul fronte sono personificate le quattro virtù cardinali: la Giustizia, la Temperanza, la Fortezza e la Prudenza, rappresentata da una donna con tre volti di diverse età (vecchiaia, maturità e giovinezza, perché essere prudenti significa avere “buona memoria delle vedute cose, buona conoscenza delle presenti e buona provvedenza delle future”, come afferma Dante nel Convivio).
Un’analoga rappresentazione si trova sul trecentesco pavimento del Duomo di Siena e nel famoso dipinto di Tiziano, l’Allegoria della Prudenza del 1565, dove la figura tricefala è maschile e a ciascuna età è accostato un animale, un cane a quella giovane, un leone a quella matura e un lupo alla anziana.
Alle colonne sul retro del sarcofago sono appoggiate le tre virtù teologali (la Speranza, la Fede e la Carità), a cui si aggiunge l’Obbedienza. La cassa sepolcrale è ornata con affollatissimi rilievi che narrano la vita del santo e il tabernacolo, in forma di loggia a tre cuspidi, ospita una Madonna in trono col Bambino affiancata dai santi Domenico e Pietro Martire.
Per ospitare l’arca, nel 1462 venne costruita una cappella attigua al corpo centrale della chiesa. Finanziatore dell’opera fu Pigello Portinari, un fiorentino mandato da Cosimo de’ Medici a Milano per aprire una filiale della Banca Medicea. La donazione della cappella in onore del martire aveva il duplice scopo di ingraziarsi il clero locale e gli Sforza, signori di Milano, e preparare una sontuosa sepoltura anche per le proprie spoglie.
Il corpo di Pigello riposa infatti sotto il pavimento mentre quello del santo giace nell’arca sovrastante. Una leggenda racconta che al momento di depositare la salma di Pietro nel sarcofago ci si accorse che l’arca era troppo corta per contenere il corpo del santo. L’arcivescovo di allora, Giovanni Visconti, pensò quindi di fargli staccare la testa; la conservò come reliquia separata e la portò a casa sua. Ma da quel giorno venne tormentato da terribili emicranie, che cessarono solo quando si decise a riportare la reliquia nella basilica.
Da allora san Pietro Martire, oltre che patrono dell’Inquisizione, divenne per tradizione popolare protettore dal mal di testa (un po’ per la decapitazione e un po’ per il colpo di mannaia). Nel giorno che ricorda la sua morte, l’ultima domenica di aprile, i milanesi usavano andare “a pestà el cò in sant’Ustorg” cioè appoggiare il capo contro l’arca (o strofinare un panno sull’urna e avvolgerlo intorno alla testa) per preservarsi da emicranie per tutto l’anno.
La Madonna con le corna
Per affrescare la cappella il Portinari (che era tra l’altro anche un parente della famosa Beatrice, cantata da Dante nella Vita Nova e nella Divina Commedia) chiamò uno dei pittori più innovativi dell’epoca, Vincenzo Foppa, che rappresentò la vita del santo, utilizzando colori luminosi e una nuova tecnica prospettica.
Nella parete a destra dell’arca disegnò una Madonna con bambino, entrambi con uno sguardo accigliato e ornati di due corna. Racconta uno dei tanti leggendari miracoli di Pietro da Verona, quando si accorse che il demonio si era presentato assumendo le sembianze della Vergine e prontamente lo scacciò mostrando un’ostia consacrata. Forse un’allegoria alle eresie combattute dal santo, che trasfiguravano figure e dogmi della Chiesa.
La Cappella Portinari è aperta tutti i giorni dalle 10 alle 18; l’ingresso è sulla sinistra della basilica e costa 6 euro.
All’interno della basilica
La facciata della chiesa è frutto di un restauro in stile neoromanico eseguito nel 1864 e anche il pulpito in pietra esterno, a destra dell’ingresso, è un rifacimento di quello in legno da cui il santo inquisitore era solito arringare le folle di fedeli.
Alzando lo sguardo si può ammirare la vetta del campanile che non è sormontato da una croce ma da una stella a otto punte. Simbolicamente rappresenta la leggenda che fu all’origine della basilica, mille anni prima delle vicende del santo inquisitore: quella dei Re Magi e dell’arrivo a Milano delle loro spoglie, partite da Costantinopoli nel 343, dono dell’imperatore romano al vescovo Eustorgio.
L’arca in pietra che le conteneva era su un carro trainato da buoi che all’ingresso in città si blocca e non riesce a proseguire. Eustorgio lo interpreta come segno divino e decide di costruire in quel punto la chiesa che ne conserverà le reliquie.
Ci resteranno fino al 1164, quando il Barbarossa le porterà a Colonia (della traslazione delle reliquie da Milano a Colonia abbiamo diffusamente raccontato in un altro articolo – link), ma la leggenda è ancora oggi testimoniata da un altare e dall’arca che conteneva le loro spoglie.
L’interno della basilica è suddiviso in tre navate sormontate da volte a crociera. L’altare maggiore è sovrastato dall’Ancona della passione, polittico in marmo del ‘300 e dietro all’altare sono visibili i resti della primitiva basilica paleocristiana. Lungo le pareti si susseguono varie cappelle. Quella dedicata ai Re Magi è a destra e le altre portano il nome di un santo o di una famiglia nobile milanese (Visconti, Torriani, Brivio, Caimi).
Un affollato cimitero
Fino alla fine del 1700 (quando un decreto imperiale vietò la sepoltura nelle chiese) era consuetudine, motivo di vanto e dimostrazione di potere e ricchezza, avere la tomba di famiglia in una basilica. E Sant’Eustorgio di defunti illustri ne aveva veramente tanti. Santi, vescovi e priori; conti e duchi; mogli, figli, nipoti e pronipoti dell’aristocrazia lombarda; medici di famiglia, funzionari fedeli e generosi donatori interessati a riposare eternamente accanto a santi.
In imponenti sarcofagi o in piccole ulne se ne contavano alcune centinaia: più che una chiesa era un grande cimitero, affollato quanto quello che si estendeva attorno alla chiesa e che fu smantellato all’inizio del 1600.
E altre tombe sono ancora presenti al piano interrato (ci si arriva visitando il Museo, l’ingresso è lo stesso della Cappella Portinari). Sono le catacombe paleocristiane risalenti al terzo e quarto secolo, scoperte negli scavi archeologici compiuti tra il 1959 e il 1960.
Tombe di gente comune, con pochi titoli, e tra le iscrizioni funerarie più curiose possiamo leggere quella dell’esorcista Vittorino, “morto il 3 novembre del 377”; del giovane schiavo Cardamionis, che “visse undici anni, sette mesi e venti giorni”; del novantenne Domese, morto negli ultimi giorni di un agosto intorno all’anno 500; della centenaria Varicia Asteria, che “visse con il marito ottant’anni, sei mesi e 21 giorni”; e di due stranieri, il barbaro Severiano e il macedone Eliodoro.
Il Priore archeologo
A fare un censimento delle sepolture (ma anche delle opere d’arte, delle lapidi e delle epigrafi) in Sant’Eustorgio si dedicò il domenicano Giuseppe Allegranza (1713 – 1785), che proprio in questa chiesa prese i voti sacerdotali e qui concluse come priore la sua carriera ecclesiastica.
Maestro di filosofia e teologia, era un appassionato archeologo e con impegno ed erudizione studiò e classificò tutti i cimeli contenuti nelle antiche chiese milanesi, allargando le sue ricerche anche in altre città lombarde, a Chieti, Roma e Napoli, in Liguria, Piemonte e Sicilia, al Sud della Francia e persino a Malta. Il tempo, le distruzioni e le ristrutturazioni hanno cancellato la maggior parte di quei cimeli ed è solo grazie alla sua catalogazione che possiamo immaginare come si presentavano quelle chiese nel tardo Medioevo.
La pubblicazione dei suoi lavori gli diede un’ampia fama e nel 1770 venne nominato da Maria Teresa d’Austria bibliotecario della Braidense di Milano, la prima biblioteca ad uso pubblico che in quell’anno veniva istituita dalla lungimirante imperatrice (ancora oggi è una delle più importanti biblioteche nazionali, con un milione e mezzo di libri consultabili, la terza per numero di volumi in Italia).