Lungo la strada che da Madrid porta a Salamanca, lande pressoché desolate: fazzoletti di terra color cachi, qualche albero secco e solitario, tori, tanti tori. Lucidi, nerboruti e placidi macchiano di nero terre singolarmente silenziose. Lo scorrere lucente del Rio Tormes si integra fin da subito attraverso lo strato superficiale della pelle, costringendomi, come un amante geloso, a cedere cieca e innamorata.
In valigia lo stretto necessario e nessuna traccia del mio passato. A lei non è mai interessato chi fossi prima del mio arrivo; mi ha accolta nelle sue strade ventose guidandomi con libertà fuori dal guscio. Accanto alla maestosa Catedral Nueva, incastonata sulle mura antiche, si posa leggera Casa Lis adesso museo modernista, ma in un’epoca d’oro non troppo lontana, fu sfiziosa dimora di vetro e ferro battuto fusi in un cromatismo delizioso. Sedevo spesso, rigorosamente in solitudine, su una panchina umida inebriata dall’odore delle rose nel giardino di Calixto y Melibea e, come la vecchia Celestina, mi abbandonavo a fantasticare meticolosamente sul loro amor lascivo. Beata libidine.
Mi accadeva nelle ore più buie e decadenti di conoscere personalità tanto intelligenti quanto ubriache, di quella ebrezza visionaria rosso porpora. Ho ricordi confusi di poliopie ocra e smeraldo nelle stanze del Paniagua e del Potemkim, luoghi di assoluta perdizione.
Quegli estranei mi sembravano creature mitologiche e mi affezionai troppo presto, come succede con i personaggi di un bel romanzo. Guardavo il mio amico piangere vino tinto e leggere poesie d’autore in mezzo al chiasso assordante della musica in strada e il rompersi di vetri di bottiglia frantumati sotto le suole, circondati da una massa eterogenea di persone ancora non abbastanza stanche da stramazzare a terra dai giramenti di testa e dalla nausea incalzante.
Durante il giorno, Dioniso, reduce da notti ribelli, lascia il posto all’eterno Apollo. La luce aurea che si riflette in Plaza Mayor propaga il tintinnio di tazzine straboccanti di café con leche e fa brillare le dolci guanciotte di frugoletti sporche di gelato. La città è Arte, trasuda Cultura. Ero assetata di conoscenza, volevo imparare, mangiarmi le pagine, inglobare ogni qualsivoglia sapere. Le pareti delle aule universitarie emanano impetuosa intelligenza e raccontano storie di eccelsi cattedratici (si dice che nei corridoi riecheggi ancora la voce di Unamuno mentre insegna greco). Ha scolpito, come le sue colonne neoclassiche, alcune delle menti spagnole più riconosciute. Fagocita studiosi curiosi e brillanti da più di ottocento anni.
Ricordo quando capii che finalmente le appartenevo. Stavo gustando una fetta di torta di mele seduta su traballanti sgabelli di pelle, accanto a quell’uomo dallo sguardo gentile e ben incanutito dietro al bancone che per mesi mi ha passato un panno sotto al mio solito cortado mattutino. In quel momento godevo dell’eterna soddisfazione che si prova quando ci si sente a casa in un posto che non ti ha visto crescere.
Ho assistito a trasformazioni straordinarie di cuori timidi e impacciati in meravigliose creature, bellissime e disinvolte. Ho visto nuovi sorrisi sbocciare sui volti di chi ha sempre temuto il mondo. Per una magica e fortunata combinazione di fattori, Salamanca ha avuto il potere di offrirmi ciò che non ho mai avuto il coraggio di chiedere, ha rivelato spontaneamente quello che ho sempre avuto titubanza nel mostrare. Grazie a lei ho compreso più onestamente chi posso essere, poiché in essa fantasia e realtà si mischiano in una perfetta formula alchemica.
Ricordi, amica mia, cosa ti promisi quell’ultima notte?
No amaré a nadie mas como te amé a ti.