Ricordo la prima volta in cui ho visto le palme delle mani imbrattarsi di sabbia e fango rosso mentre un tramonto color pompelmo riempiva la linea delle montagne del sapore di mango e fufu.
Il tam-tam dei piedi dei bambini all’inseguimento di una palla raggrinzita fatta di giornali vecchi rubava il sottofondo al cicaleccio ritmico dei panni sbattuti sulla riva del fiumiciattolo dalle donne dei villaggi. L’aria estiva, immobile e densa, scandiva senza fretta lo scorrere di un tempo lento e dilatato. Ogni istante cadeva sulla pelle lasciando il segno di una sorpresa centellinata.
Ricordo di aver tirato fuori dalla jeep una palla di cuoio sporco e di averla lanciata tra i bambini. Alla vista di una palla vera, anche i bambini che la stanchezza della malaria lasciava appoggiati alle sedie di canne affianco alle mamme si sono lanciati alla rincorsa trovando un’energia sconosciuta.
Ricordo il tam-tam dei piedi nudi mescolarsi alle grida sguaiate, inframezzate dai richiami indirizzati alla mia pelle ancora biancoccia, “Musungu! Musungu!”.
Ero poco più che ventenne e negli occhi portavo dietro i colori vividi di chi potrebbe guardare per ore il cielo scurirsi senza smettere mai di sognare l’alba. Fino ad allora l’Africa rovente color ocra l’avevo trovata solo nello scintillio patinato dei documentari o tra le suggestioni dei romanzi d’avventura.
Averla così davanti alle pupille, splendida e cruda, lenta e fuggente, mi turbava e affascinava, come uno di quei quadri incomprensibili che si lasciano scoprire solo quando vengono fissati a lungo.
Ancora oggi chiudo gli occhi e nel buio delle palpebre riassaporo le immagini di un mondo fuori dal mio.
Da viaggiatore incallito, figlio di genitori dallo spiccato spirito nomade, sono stato abituato sin da bambino a ricercare l’incomprensibile bellezza che si cela nella diversità, a inseguirla, a curarla. Nessuno dei miei viaggi precedenti però era riuscito a prepararmi allo spettacolo al rovescio della vita congolese.
Tutto ciò a cui ero abituato, i suoni cittadini, il grigio sparso del paesaggio, i colori invetriati del cielo, lo trovavo capovolto in un caleidoscopio di immagini che sembrava rendermi il riflesso di una vita lontana ed eppure vicina, inevitabilmente incollata alla mia.
Come se la semplicità dei gesti delle donne, i suoni dei piedi scalzi, le capriole della sabbia al vento, offrissero l’istantanea di una parte sconosciuta delle mie pupille.
Il ritorno alla frenesia grigiolina della vita italiana fu un cammino di immersione incerto, peraltro non riuscito del tutto. Da allora, ho continuato ad accarezzare con gli occhi il sogno vago di rituffarmi nei colori di quella terra al contrario.
Nell’attesa di quel momento insperato, ho continuato a viaggiare, scoprire orizzonti, fermarmi lì dove sentivo il peso leggero dell’istante confondersi sulla pelle, fino a quando, finalmente, nel marzo del 2020, dopo un anno di vita in Bolivia, mi sorprendo nel progetto di partire di nuovo verso la Repubblica Democratica del Congo. Avrei lavorato nei progetti di una no-profit italiana di nome Amka Onlus, che da più di vent’anni supporta le popolazioni del sud del paese nella lotta quotidiana per una vita dignitosa.
Sarebbe stato il nodo con cui riallacciare un racconto aperto otto anni prima e rimasto sospeso tra memoria e velleità; tornare tra i villaggi della brousse – la savana congolese – e scoprire l’effetto delle mani imbrattate di fango color porpora a distanza di migliaia di tramonti dalla prima volta.
La crisi sanitaria mondiale ha sciolto i legacci di questo piccolo, lungo, sogno personale, costringendomi a restare in Italia e attendere ancora. In questi giorni di ripresa, la speranza di partire si è riaffacciata alla porta. Dai primi di luglio le frontiere verso il Congo dovrebbero tornare ad essere linee aperte e, salvo complicazioni, ci saranno le condizioni per viaggiare nuovamente come operatore umanitario.
È da quando ho ricevuto la notizia che vagheggio sulle sensazioni e i colori che troverò ad accogliermi. Esserci già stato mi offre lo spunto per dare le tinte di fondo al foglio bianco della mia immaginazione.
So già che ascolterò suoni crudi e secchi, allacciati tra loro da un tempo scandito come i cerchi di uno stesso bongo e che assaporerò la fragranza agrodolce del frumento appena schiacciato diffusa nell’aria come un cantico alla terra.
So già che spalancherò gli occhi alla bellezza sconfortante dei sorrisi bianchi delle donne nell’ora di riposo sotto al baobab al centro del villaggio e che piangerò pensando alla tragedia secolare fatta di povertà e desolazione che tutto questo si porta dietro.
Ho cominciato a prepararmi riempiendo senza fretta le valigione da quaranta litri con le prime cose, quelle più importanti. Tra queste c’è una palla di cuoio sporco, il simbolo di un legame nato senza la necessità di dargli un nome. Nascondendola con cura tra i vestiti stirati alla meno peggio, ho avvertito già il suono delle grida dei bambini farsi vicine.
Tra le mani, i segni di una sabbia rossa come il sole mi raccontano di un viaggio che in fin dei conti non è mai finito.