Le piccole pupille color sabbia non riuscivano a restare aperte e continuavano a traballare in una danza di resistenza sul banco della classe. Le guance pallide si aprivano e chiudevano al ritmo lento di un respiro che si faceva via via più affannoso. Il quadernino sgualcito davanti agli occhi era ancora aperto su un argomento finito di trattare più di mezz’ora prima.
Quando sono entrato in classe a Kanyaka per il consueto saluto mattutino, ho trovato Nathan in uno stato di dormiveglia. Tentava di lottare con un istinto profondo a lasciarsi cadere sul banco, mentre le parole infarcite di numeri del professore sembravano sfiorarlo appena.
In questo spicchio di terra studiare è un lusso che si appoggia su un intreccio di vite complesse in cui l’esigenza ne è il motore primordiale. Il limite tra infanzia ed età adulta è vaporoso e coincide vagamente con il momento in cui si è in grado di aiutare la famiglia nei campi. I corpicini da uomini fatti ne raccontano il passaggio avvenuto già anni prima.
In questo mare complesso si innestano problematiche sanitarie enormi.
Al medico del centro di salute situato appena affianco alla scuola è bastato uno sguardo per diagnosticare una malaria in stato avanzato. I controlli di laboratorio sono serviti solo a confermarla.
Cominciava ad avere i primi brividi della febbre, mentre il colore sabbia delle pupille mostrava delle venature ocra ai lati dell’iride.
Nella sala di consultazione, dopo gli accertamenti, il medico e Nathan si scambiano parole lente in swahili e io riesco ad afferrarne solo alcune.
Finito lo scambio con un silenzio breve e denso, il medico mi racconta in francese che a casa di Nathan da più di tre settimane manca il papà, partito per andare a lavorare in un ettaro di campo fertile lontano qualche decina di chilometri dal villaggio, e che la mamma per campare aveva acquistato dei pulcini da rivendere una volta grandi. La zanzariera del letto in cui dormiva con i quattro fratelli era finita a fare da separé nel pollaio. Doveva essere per questo che s’era preso la malaria.
Chiedo perché il padre fosse andato così lontano lasciando il resto della famiglia. Mi risponde che i campi del villaggio oramai stanno sfuggendo dalle mani della comunità per finire in quelle dei grandi proprietari terrieri della città, a volte anche europei o cinesi. “Guarda vicino al centro di salute”, mi dice con una vena di sconsolata ironia indicando una barriera di lamiera luccicante srotolata a un centinaio di metri dalla finestra, “vedi quel cantiere in costruzione affianco alle case di fango e paglia? Lì sorgerà presto una stazione di benzina ed una banca. Qui, nel villaggio di Kanyaka. Non c’è più posto per i piccoli campi”.
È quello che chiamano land-grabbing, accaparramento delle terre. I piccoli fazzoletti di terra tramandati di famiglia in famiglia dalle discendenze del villaggio vengono venduti dal capo dell’area in cambio di qualche migliaio di dollari ad aziende e ricchi possidenti, per farci fattorie intensive, miniere o prolungamenti della città. Ci guadagna solo lui, il capo, mentre gli abitanti del villaggio restano senza l’unica fonte di sostentamento possibile e sono costretti a lavorare a mezzadria nei campi di qualcun altro a decine e decine di chilometri di distanza.
È la fagocitazione della sopravvivenza. E Nathan ne ha i segni scritti sulle pupille stanche.
I farmaci per la malaria costano caro. Ogni flacone di Artesunate viene una decina di dollari, senza contare vitamine e antibiotici. Sappiamo che la mamma di Nathan non potrà permetterseli, scegliamo di farcene carico noi. Gli infermieri gli somministrano allora il primo ciclo di cura e lo rimandano a casa con l’invito di tornare con la mamma appena possibile.
Tornerà il giorno dopo assieme a lei, e quello dopo ancora. La mamma, splendente nel suo abito di pagne colorato, mostra una gratitudine sconsolata e insofferente. Nelle risposte brevi alle domande del medico trovo il sintomo di un fatalismo divenuto l’unica arma per resistere e sopravvivere.
Dopo una settimana Nathan è tornato a scuola ed ora è pronto per sostenere gli esami di fine anno. Nella lotta per una vita dignitosa l’istruzione rappresenta uno dei pochi presidi di sicurezza e cambiamento. Fuori dall’aula il tempo invece sembra essersi fermato sulla superficie antica dello sfruttamento.
Gli occhi di Nathan di nuovo brillanti di sagace curiosità sembrano custodire la flebile speranza in un mondo in cui il mantra dello sfruttamento diventi solo un ricordo. E la terra torni ad essere il nutrimento di chi la vive.