Ricordare è in fondo ripercorrere strade. Elucubrazioni sulla via del ritorno in un hotel di Madrid
Animus meminisse horret. L’anima si sbigottisce a ricordare (Virgilio, Eneide II, 12). Era notte. Che poi, cosa distingue la notte dalla mattina presto? Una frazione di secondo? Un granello in più o in meno di trasparenza lunare? Camminavo e mi ponevo domande. Che poi sono forse le due cose che so fare meglio, pensai. Ma solamente quando sono slegati da obblighi, per me, passi e pensieri restano leggeri, creativi. In un qualche modo incapaci di ferire il luogo da cui sono usciti quando ci ritornano, dopo essere andati a confrontarsi con il mondo. La differenza che distingue la notte inoltrata dalla primissima mattinata è la medesima che intercorre tra un mucchio di sabbia e qualche granello sparso. Me la risolsi così. Le strade di Madrid mi ricordavano quelle di Genova. Mi chiesi come fosse possibile. A Madrid non c’è il mare, non c’è odore di pesce, non c’è un gran che di bancarelle, prostituite e fruttivendoli arabi aperti fino alle tre di notte. Eppure. Sarà il fatto delle salite e delle discese, che a volte alla fine della strada uno abbia l’impressione che possa spuntare il mare. Probabilmente quello.
Iniziavo ad essere stanca e a chiedermi se mai più avrei rivisto le sacre sponde del letto dell’hotel. Ogni tanto mi domando come farei, a orientarmi nella vita, senza le mappe sul telefono. Ora dovrei trovarmi una biblioteca sulla sinistra e poi andare dritto. Eccola.
Posto che vai, biblioteca che trovi. Quanti racconti saranno stati scritti su gente che torna in un hotel, di notte? Pensai. Almeno un centinaio. In tutta la storia del Novecento letterario, solo un centinaio di racconti su qualcuno che torna in un hotel in piena notte? Almeno mille. Mille è ancora poco. Quanto è poco? È quanto distingue la notte inoltrata dalla mattina prestissimo.
Poi dipende, se conti come letteratura anche il tizio ubriaco che, una notte tornato in stanza, ha scritto sulla carta da lettera dell’hotel “la vita è bellissima”, allora il numero aumenta esponenzialmente. Tipo Memento. Cosa c’entra Memento? Il protagonista del film Memento vive in quelle stanze di hotel, tipiche dei film americani, che non si capisce mai se siano appartamenti o motel. Sì comunque ho capito, dissi a me stessa. Ma quindi i tatuaggi del protagonista del film, che si scrive le cose per ricordarsele la mattina quando si sveglia, sono letteratura? No, non mi sento di dare definizioni di letteratura ora. Anche perché, con il fatto che qui a Madrid i bicchieri di vino ti vanno via a 3 euro a calice, la sera non resto troppo lucida. Però è un modo che lui ha per tornare a sé stesso, ai propri ricordi. Quindi la letteratura non ce la metterei dentro, però il ritorno sì. Ora bisogna girare a destra, di fianco al ristorante. Dov’è? Dingo! Trovato.
Le strade sono illuminate, in questa città si passa da un vicolo piccolo ad una strada maestra in un nanosecondo. È l’ultimo giorno che passo qui, domani tornerò a casa. È strana questa cosa del tornare. In latino tornare si dice redeo, prefisso re- più verbo eo. Il prefisso (quella roba che si mette davanti al verbo per dargli una sfumatura particolare) indica, in questo caso, “di nuovo” oppure “all’indietro”. Eo è un verbo che indica movimento, significa andare, io vado. Quindi re + eo significa andare di nuovo o andare indietro. “Andare di nuovo” mi piace di più come accezione, è più vitale. “Andare indietro” mi sa di un ripiegamento. L’andare di nuovo mi fa pensare ad un’evoluzione. Che è poi il processo che fa il pensiero quando cerchiamo di analizzare noi stessi, quando tentiamo di comprenderci. Andiamo di nuovo nei luoghi del pensiero dove mettiamo i ricordi, nei cassetti dove abbiamo custodito certi momenti. Pensiamo a ciò che abbiamo fatto, a ciò che siamo stati. Non lo facciamo con i passi ma con la mente, ricordando. Potremmo dire che ritornare è un processo che possiamo fare sia fisicamente, con i nostri piedi, sia mentalmente tornando negli spazi del nostro pensiero che sono i ricordi. Ricordare è andare di nuovo con il pensiero a ciò che è già stato, prendere dagli armadi certe pellicole e attivare la macchina della memoria come una cinepresa. Che poi, se ci fai caso, è un po’ il processo della creazione artistica. Su questo pensiero persi me stessa.
Madrid è una città bellissima, una città piena di parchi e di gente che sorride. È una città che fa pensare all’arte. D’altronde Hemingway ha detto che “Madrid è piena di letteratura, poesia e musica, tanto che essa stessa è un personaggio letterario”. Mentre tornavo all’hotel con i piedi, con la mente tornavo a quella mattina. Al museo Reina Sofia e pensavo a Immendorf all’arte e alla politica. Passando per Plaza del Dos de Mayo, che è la data in cui a fine ‘800 i madrileni si ribellarono a Napoleone, mi era venuto in mente qualcosa sui desaparecidos. Mi accorsi, guardando su internet, che era il mese di maggio ad aver sollecitato la mia mente a cercare, nei suoi archivi, qualcosa che però non riuscivo a trovare. Mi resi conto che avevo scambiato quella piazza con un’altra. La piazza cui stavo pensando si trova invece in Argentina, a Buenos Aires. La mia mente aveva fatto un refuso, aveva collegato un pezzettino di presente ad un ricordo che non era esattamente coerente. Almeno non con il luogo. Pensai alle Madri di Plaza de Mayo, un’associazione di donne, madri o parenti di quei dissidenti politici che in Argentina, dalla seconda metà del ’70 ai primi anni ’80, sparirono nel nulla. Lo avevo letto in un libro. Non riuscivo a ricordarne il titolo, lo avevo letto in prima liceo. Un romanzo che racconta di quanto ricordare la storia sia importante per crearsi un futuro migliore. Trovai ironico il non ricordare il titolo di quel libro. Ma forse l’importante era che me ne fosse rimasto il messaggio.
D’altronde la memoria agisce come un colino e tiene aperte solo certe strade su cui è possibile ritornare. Altre vengono chiuse, dimenticate ed iniziano a crescerci piante e arbusti, così che se un giorno decidi di tornarci devi portarti dietro una spada o una cesoia, per riaprirti la strada. Era un libro sui desaparecidos. La storia di un ragazzino che torna di nuovo nei passi della storia e la indaga, per trovare le proprie origini e sé stesso. Su quel tema avevo letto I vent’anni di Luz, della Osorio. Ma non era quello il titolo a cui stavo pensando. Di solito per ricordare un libro ripenso al colore della copertina. Questa volta non mi viene in mente. Non capisco perché. Pensai.
Una volta rientrata a casa, la sera seguente, andai in camera mia. Cercai e ricercai il libro. Non lo trovai. Dopo qualche mese, mettendo in ordine la libreria, scoprii un libro nascosto dalla copertina plastificata di quei quaderni su cui sono raffigurati degli animali esotici. Lo aprì e ricordai. Non lo avevo letto al liceo ma prima, durante le scuole medie. Lo avevo ricoperto con l’immagine di un ghepardo. Il vento di Santiago, Paola Zannoner.
Era tutto disegnato, appuntato, scarabocchiato. Mi tornò in mente, per la prima volta dopo anni, del mio vicino di banco delle medie. Andrea. Tra gli scarabocchi che aveva fatto sul mio libro, uno mi colpì. Una faccina triste, accompagnata da una parola, un’esclamazione poco fine ma molto azzeccata, di fianco ad un passo tra le ultime pagine: “Insieme ad altre donne, Alicia si era sentita più forte e più decisa, aveva ritrovato sé stessa, era riuscita a condividere il proprio dolore con quello delle altre. Come Estela, erano sparite migliaia di persone: centinaia e centinaia di volti e di storie, un’immensa folla scomparsa nel vento. Desaparecidos”. Quanto è importante ricordare. Caz*o!