Nel bar
Ricordo che le mani sottili di bambino non smettevano un secondo di affusolarsi e allungarsi tra le bottiglie di vetro sporco disposte sul bancone fatto di ferri vecchi e legno grezzo. Dimostravano una decisione nei gesti che male s’intonava con il colore infantile delle palme, così piccole da doversi aggrappare insieme ai fiaschi più pesanti.
Seduto in un angolo su una cassa di birre vuote, aspettava con pazienza di intravedere un paio di occhi arrossati farsi largo nella nebbiolina scura del bar. Allora bastava un cenno delle sopracciglia per mettersi all’opera: mano destra sul collo della bottiglia di plastica ripiena di liquido giallognolo e sinistra ben stretta sulla fiaschetta di vetro opaco ancora vuota, di quelle tascabili da nascondere nelle pieghe interne degli impermeabili; poi con uno scatto del gomito la destra saliva su mentre la sinistra teneva il fondo della fiaschetta incollato al tavolo e sglup! con una precisione che avrebbe fatto gridare chiunque al miracolo il liquido giallognolo veniva sversato dalla bottiglia alla fiaschetta disegnando una curva di colore scintillante sullo sfondo bruno del locale.
Conclusa l’operazione, il paio di occhi arrossati lasciava cadere una banconota lurida e sbucciata tra le mani da latte dell’infante e la fiaschetta appena riempita finiva ingoiata nel buio dei tavoli in fondo. Allora il bambino si riammucchiava placido sulla cassa di birre all’angolo e in silenzio tornava a contemplare l’attesa del prossimo paio di occhi stanchi.
Ngoy
Avrà avuto nove anni, forse dieci, e nello sguardo portava già una indolente rassegnazione da adulto.
La musica sparata a tutto volume dagli altoparlanti appesi a mo’ di lampadario sui pali del soffitto, il tran-tran del generatore elettrico perennemente acceso nella stanza affianco, la nuvola di fumo denso appiccicata alla pelle, l’odore acre dell’alcol sparso come vapore nei pochi metri quadrati del locale, le torce spente ancora attaccate alla fronte degli avventori, i loro sguardi languidi e afflitti aggrappati ai riflessi color ambra della bevanda; ogni cosa in quella capanna fatta di teli incerati e giunchi sembrava cozzare con le sue pupille molli e scure, così lontane e morbide di fronte alla notte affilata congolese.
Ricordo di essermi fatto coraggio e di avergli chiesto d’un fiato come si chiamasse.
“Ngoy!” mi risponde, con un sorriso malizioso appena accennato sulle labbra, evidentemente curioso d’essere interpellato dall’unico bianco nel raggio di chilometri.
Con le poche sillabe di swahili raccolte nelle settimane precedenti gli chiedo allora che ci facesse lì, a servire liquore artigianale a minatori che tentavano di dimenticare le fatiche della giornata.
“Musuri kaka, c’est cool” mi risponde, con il sorriso che si fa ancora più largo. “Mi piace amico, è bello”.
Ricordo che in quell’istante avrei voluto chiedergli tanto altro, avrei voluto descrivergli la bellezza della scuola e di farsi raccontare favole prima di addormentarsi, avrei voluto invitarlo a lasciare tutto e andare a letto. E invece di fronte a quelle semplici, scarne, spontanee sillabe di risposta restai muto, incapace di articolare un pensiero razionale, sprofondato in un vortice di sensazioni aggrovigliate e contrastanti.
Il peso di una distanza che non avrei mai potuto colmare s’era fatto presente. Davanti agli occhi m’ero ritrovato la consistenza di una sofferenza tanto banale da divenire non solo accettabile ma addirittura “cool”, figa.
Distanze
Ero nella Repubblica Democratica del Congo già da qualche mese, volontario per la no-profit italiana AMKA OdV. Lavorando costantemente in villaggi sperduti della campagna, abbandonati alla propria povertà come canne al vento, mi era già capitato varie volte di vedere bambini prestati alla vita da adulti; minatori, contadine, fabbricanti di mattoni, cercatrici di oro, lavoratrici e lavoratori fatti e bruciati dal sole già a otto, dieci, tredici anni.
Vivere la quotidianità congolese significa capire che dove la miseria è mantra, il confine dell’infanzia evapora divenendo un limite labile e barattabile per un briciolo di stabilità economica.
La notte in cui ho conosciuto Ngoy ero nel villaggio di Kambove, a mezz’ora di jeep da Likasi, cittadina in stile coloniale del Katanga dove si raggruppano le principali cave di cobalto del paese.
Kambove è un villaggio di minatori; le case sono fatte di teli di plastica uniti insieme da tappi di bottiglia e gli uomini, raggiunta l’età minima per reggere in mano un piccone, non hanno altra scelta all’infuori di ficcarsi per dodici ore al giorno nei cunicoli della vicina miniera di cobalto gestita dalla società cinese CNMC, per cinque dollari e un caschetto di plastica.
Vista da questa prospettiva, Ngoy è un privilegiato; lavorare nel bar-capanna della famiglia è un lusso che la maggior parte dei coetanei del villaggio non può permettersi. Di fronte alla vita da minatore, trascorrere sere e notti a servire lutuku ai lavoratori sfatti dalla giornata nei cunicoli rappresenta una via di fuga dalla disperazione ordinaria.Di fronte alle mie pupille, figlie d’una infanzia soffice e sicura, la vita di Ngoy raffigura invece con nitidezza l’irrimediabile incomunicabilità che allontana le nostre culture, frantumate in una realtà che impedisce anche solo d’immaginare insieme cosa sia cool per un bambino di nove anni.