Røst è una piccola isola dell’arcipelago norvegese delle Lofoten, poco oltre il Circolo polare artico. Terra piatta, circondata da centinaia di piccoli e grandi scogli, si estende per circa dieci km quadrati e conta 500 abitanti, prevalentemente occupati nella pesca del merluzzo (da gennaio ad aprile) e nella lavorazione dello stoccafisso.
È la più lontana dalla costa norvegese e forse per questo la meno turistica tra le isole dell’arcipelago, anche se con le altre condivide le stesse affascinanti atmosfere da mondo artico estremo, i paesaggi disegnati da una incredibile luce, le aurore boreali e la presenza di numerose colonie di uccelli marini.
A renderla particolare è la sua storia, stranamente legata all’Italia e alle vicende avventurose di un navigatore veneziano del 1400, Pietro Querini. Poco conosciuto nel nostro Paese, celebratissimo a Røst. A lui sono dedicati un Parco letterario, un pub e un festival che si celebra ogni anno in agosto con la rappresentazione di un opera lirica sul viaggio del veneziano e sul naufragio che lo portò in quelle terre. Composta da una musicista norvegese (Hildegunn Pettersen) e cantata in parte in italiano, è ambientata a Venezia e a Røst e la trama si svolge con la partecipazione corale degli abitanti dell’isola.
Il legame con l’Italia è rafforzato, oltre che dagli scambi commerciali nel mercato del pesce essiccato (più dell’80 per cento dello stoccafisso che consumiamo arriva da lì), anche dall’apertura a Røst nel 2014 di una sede, la più a Nord, della Società Dante Alighieri, l’istituzione creata nel 1889 da Giosuè Carducci per diffondere nel mondo la cultura e la lingua italiana.
Quella del Querini è la storia di un viaggio avventuroso, di scoperte casuali (quasi un’anteprima di quelle di Colombo, che avverranno 60 anni dopo) e di un’amicizia che nasce dal reciproco aiuto, dall’accoglienza e dal cibo.
A raccontarla e a tramandarla sino a noi fu lo stesso navigatore veneziano, in un diario di viaggio che divenne una relazione per il Senato della Repubblica di Venezia (oggi conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), una cronaca confermata anche dalle deposizioni, custodite dalla Biblioteca Marciana di Venezia, di due marinai, Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.
Il viaggio e il naufragio
Pietro Querini, trentenne mercante veneziano, navigatore e signore dei feudi di Castel di Temisi e di Dafnes, in terra di Candia (Creta), nel gennaio del 1431 partì da Venezia su una cocca (nave a vela monoalbero) in legno di cipresso di sua proprietà, la Querina, diretto a Frangokastello, porto sulla costa sud cretese, fortezza e magazzino costruito nel 1374 dai veneziani per contrastare i pirati e proteggere i nobili feudatari e le loro proprietà. Da qui ripartì il 25 aprile alla volta dei porti delle Fiandre (Bruges e Anversa, basi logistiche per i mercati olandesi e inglesi) con a bordo 68 uomini di diverse nazionalità, dopo aver caricato la nave di ottocento barili di vino Malvasia (da lui prodotto nei suoi possedimenti cretesi), spezie, cera, allume di roccia e altre mercanzie. Il 2 giugno raggiunse Cadice, dove la nave riportò danni al timone e alla chiglia che richiesero tre settimane di riparazioni. Ripreso il viaggio il 14 luglio, venne scelta una rotta al largo del capo di San Vincenzo per evitare eventuali incontri con i genovesi che avevano riaperto le ostilità con i veneziani, ma il vento dell’oceano lo spinse verso le Canarie, costringendolo a una nuova sosta. Finalmente il 29 agosto riuscì a entrare nel porto di Lisbona e, dopo un rifornimento di viveri, da lì ripartì il 14 settembre per giungere poi il 26 ottobre a Muros, dove approdò per visitare il santuario di San Giacomo di Compostela. Quando la nave riprese il viaggio, diretta verso l’imbocco della Manica, la stagione era ormai troppo avanzata e dopo aver doppiato il temibile Capo Finisterre, il 5 novembre un forte vento di scirocco spinse la Quirina al largo della Cornovaglia verso la costa occidentale irlandese.
Trascinati ancora più a nord da una violenta tempesta che squarcio vela e timone, gli uomini dell’equipaggio furono costretti ad abbandonare la nave.
Il 17 dicembre calarono due imbarcazioni di salvataggio: una piccola galera con remi che accolse una ventina di marinai, e una scialuppa, nella quale presero posto i restanti 47 e il capitano Querini. I primi sarebbero in breve tempo scomparsi per sempre e solo una parte dei secondi si sarebbe salvata. In balia delle onde, del freddo, della fame e della sete, un giorno dopo l’altro le notti si allungavano, e nelle poche ore di luce aumentava il numero delle salme dei marinai da gettare in mare. Solo il 6 gennaio 1432 sedici superstiti riuscirono a sbarcare in un isolotto disabitato, spoglio di vegetazione e tutto ricoperto di neve. Credettero di essere approdati nella parte settentrionale dell’Irlanda o in qualche isola estrema della Scozia, senza rendersi conto che trasportati inspiegabilmente da correnti marine (la Corrente del Golfo, il fiume d’acqua calda che parte dal Golfo del Messico per disperdersi nell’artico verrà scoperto solo nel 1513) avevano superato il circolo polare, raggiungendo terre inesplorate (le allora sconosciute isole Lofoten) in quella parte oscura e inospitale del mondo che i navigatori veneziani dell’epoca chiamavano “culomundi”.
Le sorprese del culomundi
Bruciando per riscaldarsi i legni della scialuppa, sfasciatasi nell’approdo, e mangiando neve con le poche cozze che riuscivano a trovare sulle rocce, la sopravvivenza sull’isolotto divenne sempre più precaria e altri cinque uomini persero la vita. Ma il fumo dei loro fuochi attirò la curiosità degli abitanti di un’isola vicina e il 3 febbraio una piccola barca di pescatori raggiunse lo scoglio dei sopravvissuti. Parlavano una lingua sconosciuta ma capirono la situazione e organizzarono per il giorno seguente il recupero dei naufraghi trasportandoli nella loro isola (Røst) distante otto miglia, e lì furono accolti e ospitati in diverse famiglie, come se facessero parte di quella comunità. Quel periodo durò tre mesi e undici giorni e fu per Querini e i suoi marinai ricco di scoperte e sorprese, che puntualmente riportò nel suo diario. Registrò che sull’isola Rustene, adattamento in veneziano di Røst, vivono 120 anime, in maggioranza credenti e cristiani. Gente semplice, rispettosa e di grande solidarietà collettiva. Sono persone molto pulite (contrariamente ai popoli mediterranei dell’epoca che facevano il bagno al massimo una volta al mese, loro si lavavano una volta a settimana), hanno un bell’aspetto e “si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro”. Non hanno altro cibo che dalla pesca, “poiché in questa remota regione non cresce alcun tipo di grano”. Catturano un’enorme quantità di pesci che “siccitàno nel vento e al sole senza sale, e poiché questi pesci, che chiamano stocfisi, non contengono molta umidità o molto grasso, diventano asciutti come il legno”. Quando devono mangiarli, li picchiano con il martello dell’ascia per intenerirli e poi aggiungono “butiro e specie” per dare loro sapore.
Le loro case sono costruite in legno e sono rotonde“con aperture circolari in alto, che copron con pelli di pesce”. Usano vestiti di lana e hanno anche una grande capacità di sopportare il freddo. Quando i bambini hanno compiuto quattro giorni, li depongono nudi all’aperto, “perché la neve cada su di loro e sono così induriti e abituati al freddo che, da adulti, se ne preoccupano poco o nulla”.
Querini annotò con stupore anche la grande libertà di costumi. “Alloggiamo nelle stesse stanze dove dormono mariti, moglie e le loro figliuole e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto”.
Donne disinibite anche nel rito della sauna: “avendo per costume di stufarsi il giovedí, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl’uomini”.
Il ritorno a Venezia
Nel mese di maggio decisero di prendere la strada del ritorno facendosi accompagnare a Bergen (importante centro norvegese a sud, allora crocevia dei traffici commerciali con Inghilterra e Germania), dove i pescatori di Røst, con l’arrivo della primavera, erano soliti trasportare su un piccolo vascello il pesce essiccato eccedente i loro fabbisogni e lo barattavano con vestiario e altre mercanzie. Dopo otto giorni ripartirono alla volta della Svezia. Carichi di viveri, indumenti e 60 stoccafissi offerti loro dai pescatori rusteni che li avevano salvati e ospitati. Camminarono per 53 giorni verso oriente, attraverso territori scarsamente abitati, dove vennero sempre accolti con generosità e simpatia. Giunsero così a Vadstena, dove furono ospitati da messer Zuan Franco, di origine veneziana e uomo di fiducia del re di Svezia, che li imbarcò su due navi in partenza da un porto sulla costa, l’una per Rostock e l’altra per l’Inghilterra. Tre componenti del gruppo, tra cui il Fioravanti e il Di Michiele, salirono sulla nave diretta in Germania, mentre gli altri otto sopravvissuti partirono alla volta dell’Inghilterra, compreso Pietro Querini che, sbarcato a King’s Lynn, si trattenne alcuni mesi presso alcuni suoi concittadini, inizialmente a Cambridge e poi a Londra, prima di riprendere la strada dell’Italia attraversando la Germania e la Svizzera e rientrare, nei primi giorni di ottobre del 1432, a Venezia.
Quando fu invitato a relazionare al Doge Francesco Foscari e al Senato sul tragico viaggio e a giustificare la perdita di vite umane, il suo raccontò interessò e coinvolse tutti i veneziani, sia per le informazioni sulla geografia, il clima e l’ambiente di terre sconosciute, che per le annotazioni sugli insoliti usi e costumi di popolazioni fino ad allora immaginate quasi selvagge. In particolar modo incuriosirono quegli strani bastoni di pesce e furono così apprezzati che da allora entrarono nella tradizioni gastronomiche della cucina veneta.
Negli anni seguenti Pietro Querini si dedicò alla carriera pubblica e nell’ottobre del 1438 venne eletto alle Rason Vecchie (la magistratura contabile che controllava l’utilizzo dei beni pubblici della Repubblica); un anno dopo, il 29 settembre, entrò a far parte del Senato, nel quale fu riconfermato nel 1446. Era ancora in carica quando due anni dopo morì.
Per ricordare Pietro Querini nel 1932, cinquecento anni dopo il naufragio, gli abitanti delle Lofoten hanno eretto una stele a Sandøya, l’isolotto disabitato al largo di Røst sul quale trovò rifugio.
Merluzzi, malvasia e parole
Negli oltre mille anni della loro repubblica (dalla caduta dell’Impero romano a Napoleone) i veneziani portarono nel mondo allora conosciuto merci, arte e cultura. Con le loro galere aprivano traffici commerciali nel Mediterraneo, nelle Fiandre, in Inghilterra. Scambi e contaminazioni che arrivarono fino in India e in Cina, seguendo le rotte verso Oriente (per quella Via della seta dove viaggiavano broccati e spezie, oggi petrolio e prodotti hi-tech e per troppo tempo container di giochini in plastica e improbabili souvenir, a centinaia in pacchi da rivendere per pochi euro).
Tra il 1200 e il 1400 contribuirono anche a rinnovare e modificare le abitudini alimentari nel Medioevo, diffondendo sia l’utilizzo delle spezie, dall’ambito medicinale a quello gastronomico, che i vari metodi acquisiti nella conservazione del pesce, dalla salatura, all’essiccazione e all’affumicatura.
Il clamore suscitato dalle vicende del Querini favorì l’apertura di un nuovo mercato con i paesi del nord con un traffico di importazione di merluzzo in costante ascesa, soprattutto dopo il Concilio di Trento, che nel 1563 impose una disciplina rigorosa dei digiuni proclamando giorni di astinenza dalle carni il mercoledì e il venerdì. Veniva invece consentito il consumo di pesce, che purtroppo era facilmente deperibile e difficilmente reperibile per le popolazioni lontane dal mare. A suggerire una soluzione al problema fu l’arcivescovo svedese Olaf Manson, uno dei protagonisti del Concilio, consigliando (forse in maniera nel tutto disinteressata) l’utilizzo dello stoccafisso, nutriente, economico e di lunga conservazione. Da allora diventerà per antonomasia il mangiare di magro e le ricette con il merluzzo diverranno patrimonio delle tradizioni gastronomiche di tutte le regioni italiane.
Vicende analoghe riguardano anche la malvasia, il vino che Querini esportava nelle Fiandre e che deve ai veneziani il successo e la sua diffusione: nel XV secolo era il vino più pregiato e ricercato d’Europa.
Lo scoprirono attraccando in un porto del Peloponneso, all’inizio del 1200 durante un viaggio organizzato per la quarta crociata.
A Monemvasia, città fortificata con una sola via d’accesso (da cui ha origine il nome), si produceva un vino dolce dal gusto aromatico per l’aggiunta di resine nel mosto che ne favoriva la conservazione.
I veneziani non si limitarono a gustare (con grande gradimento) il vino ma presero alcuni tralci di quella vite a li portarono prima a Creta e poi in altri paesi del Mediterraneo, diffondendo infinite varietà di un vitigno che chiamarono Malvasia (traduzione veneziana del luogo d’origine).
Ma le navi veneziane non trasportavano solo merci, con loro si muovevano nel mondo persone, culture e parole che entravano nell’uso corrente di varie popolazioni.
La più nota è sicuramente ciao, il saluto con riverenza, il “servo vostro” abbreviato dai veneziani in sciao (dal latino sclavus, schiavo), che persa la formalità, è divenuto un amichevole saluto universale.
Un altro termine èghetto, oggi usato in tutto il mondo per indicare un quartiere, un’area in cui viene relegata una minoranza etnica o sociale emarginata. Prende il nome da una contrada di Venezia nel sestiere Cannaregio, il getto, come veniva chiamata una zona dove si trovava una fonderia (getto-colata di metallo) divenuta nel 1516 lo spazio in cui venne reclusa la comunità ebraica.
Anche molte parole della lingua italiana sono di origine veneziana.
Ad esempio, per rimanere nell’ambito politico-amministrativo (settore d’eccellenza della repubblica marinara), ballottaggio deriva dalle ballotte, palline d’oro e d’argento che venivano estratte da un’urna trasparente e usate nelle elezioni dei senatori veneziani per evitare che venissero nominati membri di una stessa famiglia e il termine ditta, che prende origine da antichi documenti veneziani dove per non ripetere il nome di un’impresa o un’azienda veniva scritto la dita, cioè “la già detta”, “la suddetta”.