Dicono che c’è un tempo per seminare
C’è tempo – Ivano Fossati
e uno più lungo per aspettare,
io dico che c’era un tempo sognato
che bisognava sognare.
Ogni tanto ci ripenso.
Prima di andare a vivere in una casa di accoglienza per senza dimora in una comunità terapeutica tra le Ande, lavoravo in uno studio legale a Milano. Ogni tanto ci ripenso. Mi ricordo i risvegli morbidi con cappuccino e cravatta. Gli aperitivi, lo stipendio rassicurante a fine mese, il suono delle scarpe eleganti sugli scalini dell’ufficio. Le mance nei ristoranti il venerdì sera, il taxi per tornare a casa. Le telefonate serene con mamma i sabati pomeriggio, le domeniche sera passate a stirare le camicie della settimana. E poi le vacanze un po’ dove volevo.
Una vita facile, sicura, apparentemente piena. Di quelle con dei binari chiari, lineari, con fermate obbligate di qualche minuto, giusto il tempo per salutare i passeggeri e ripartire verso la prossima.
Ogni tanto ci ripenso e mi chiedo come mi sia saltato per la testa di lasciarla scappare. Quante preoccupazioni in meno, quante sicurezze in più, dove sarei ora. Sicuramente con meno capelli bianchi, una situazione gastrointestinale decisamente più stabile, una mamma in pace che non mi chiederebbe recapiti telefonici di mezza rubrica ad ogni spostamento. Si, ogni tanto mi domando ancora perché. Specialmente quando di prima mattina qui manca l’acqua e fuori ci sono meno due gradi.
Poi però capitano giornate come questa, con un po’ di tempo per pensare, riassumere le esperienze e raccontarle e tutto torna perfettamente chiaro, cristallino, limpido. Poco importa che la manopola del rubinetto giri a vuoto, la pancia continui a borbottare strani mantra, il freddo polare. Capitano giornate così e subito mi sento stupido ad aver minimamente pensato che la felicità non stia tutta qui, in queste facce, in questi momenti.
Ho visto brillare gli occhi di un ragazzo disabile, spalancati di sorpresa quando è stato chiamato a giocare la sua prima partita di calcio con i “normali” e le guance di bambini orfani diventare rosse di capriole tra le mie mani al grido di “Papi!”. Ho visto padri di famiglia sorridere e riabbracciare i loro figli piccoli dopo mesi lontani passati a curare un tarlo nella testa che li rende infelici e le lacrime di chi sa di aver distrutto ogni cosa e vuole riiniziare da capo.
Ho visto anziani non vedenti ballare scalmanati al ritmo di Elvis Presley e la gentilezza silenziosa delle vecchine senza nulla offrirti da mangiare le uniche patate rimaste in credenza. Ho visto una signora senza gambe vivere col sorriso in una stanzetta senza finestre assieme ai tre figli e il volto di una ragazzina vittima di violenze esultare di gioia appena finito di tessere la sua prima sciarpa per l’inverno. E ho visto Luis, steso e abbandonato sulla strada.
Una coperta e una giacca
Accartocciato nella fanghiglia di una terra marcia, tra bottiglie di vetro vuote e mattoni sbucciati, con la ghiaia grigia a fargli da letto, forse il suo unico appiglio a un mondo fatto di vuoto. Al primo sguardo non sembrava nemmeno una persona, ma un groviglio di panni consumati buttati lì nell’attesa di essere portati via. Il flebile tremolio delle labbra e di una mano sono le ultime gocce di una vita stanca che scivola via.
Poi, con uno sforzo indicibile sospira il suo nome, “Luis”, guardandoci senza luce con pupille dal colore vitreo di una perla sbiadita. Non ha fame, non ha sete, non può muoversi, la disperazione della solitudine parla con un respiro senza suoni, rotto solo dai rantoli sommessi del petto e le smorfie impercettibili della fronte. Le nostre mani lo accarezzano cercando di infondere vita, come se fosse sufficiente un contatto.
Ha bisogno di un medico e chiamiamo il centralino dell’ospedale più vicino. Dopo minuti ci risponde una voce distratta. Può pagare l’intervento? Ah vive in strada? Magari è anche alcolista? Niente da fare, se non può garantire la copertura di tutte le spese l’ambulanza non si muove. Riattacca. Impotenti, proviamo a chiamare i Servizi Sociali, la Polizia locale, i bomberos. L’attenzione per quelle quattro ossa in fin di vita è inversamente proporzionale ai tempi di risposta alle telefonate.
È solo un altro alcolista accasciato di fronte al proprio dramma d’infelicità e solitudine. Non merita aiuto, non merita assistenza, nessuno se ne prenderà carico. Restiamo immobili, freddi, come se di fronte a quella sfilata di placida indifferenza anche noi stessimo perdendo grammi di luce e vita. Non possiamo portarlo con noi, non sappiamo aiutarlo e dobbiamo andare. Abbiamo altri volti sofferenti da incontrare, angoli bui in cui fermarsi con il lume fioco di una zuppa calda versata nei colli di bottiglia.
Altri Luis ci aspettano. Stendiamo una coperta calda sulle gambe, che sembrano incollate al fango, con una giacca avvolgiamo il petto.
Lo guardo, un’ultima volta, Cristo calpestato steso nel suo sudario, lo guardo e capisco che quella coperta e quella giacca portano il peso di una distanza, hanno stampate addosso le impronte dell’indifferenza. Degli operatori d’ospedale, che nonostante la legge preveda il diritto alla sanità pubblica si rifiutano di medicare chi non ha il denaro per pagare. Degli assistenti sociali e delle autorità che trovano sconveniente intervenire quando il buio della sera e la piccolezza della persona in pericolo non garantiscono una buona pubblicità. Di chi crede che storie come quella di Luis siano racconti lontani dai quali sfuggire, figli di una colpa da biasimare, condannare, come un’infezione purulenta e contagiosa.
Di tutti noi che siamo vissuti nell’abitudine di un agio senza meriti e abbiamo dimenticato cosa sia la disponibilità a lasciarci visitare dalla povertà.
Lo lasciamo lì, sofferente, moribondo, con una coperta consumata e una giacca, accompagnati dalla promessa vuota di tornare presto.
Torniamo ma Luis non c’è più e i suoi compagni di strada, occhi rossi di alcol puro, ci raccontano come se ne fosse andato. É morto in casa, raccolto dalla pietà dei genitori anziani ormai stanchi del peso delle sue scelte sbagliate e della sua sfortuna. Scelte sbagliate? Sfortuna?
Anche qui in Bolivia mi sono sentito spesso dire che le persone sono il risultato delle proprie scelte; che il senso di colpa per essere nato nel lato giusto del mondo è infondato perché non esiste un lato giusto; che, con i dovuti accorgimenti e le proporzioni del caso, ovunque le persone sono libere di inseguire ciò che desiderano. Mi sono sentito dire che non è una questione di luogo di nascita, né di famiglia, né di contorno sociale; al più questi fattori possono influenzare, ma di certo non determinano la qualità delle scelte di ognuno, la vita che si porta dietro.
Non esistono sfigati, esistono solo le persone, le persone che con il ventaglio di opportunità steso davanti fanno alcune scelte e non altre. Il vagabondo, il tossicodipendente, la prostituta, il ladro, il migrante, la zingara, il depresso, il morto di fame, il disoccupato, ognuno è ciò che ha scelto o non scelto di essere. Punto. Tutto qui. Non serve menarla con la favola della fortuna, della sorte che gioca ai dadi con la storia in un vortice cieco di casualità. La realtà è che la fortuna non esiste, esistono solo la persona e il mosaico di decisioni che ne costruisce il presente.
Ammetto che per un po’ ho creduto a questa visione determinista ed è stato un gran sollievo. Per la coscienza soprattutto. Un soffio d’acqua tiepida sull’io interiore che continuava a sussurrare che sono quello che sono, felice, sorridente, solo perché ho avuto una gran fortuna. Mi sembrava di aver capito che non servisse cambiare il mondo, il mondo non ha nulla che non va, al massimo può essere utile aiutare alcune persone a prendere scelte migliori. Ma non dovevo sentirmi baciato dalla sorte, ciò che portavo con me veniva semplicemente dall’aver preso scelte buone.
Poi un episodio, un altro incontro, dopo quello di Luis, mi ha fatto nuovamente riflettere.
Il piccolo bigliettaio
Qualche tempo fa prendo un minibus, il trasporto pubblico di La Paz, di sera, e trovo ad aprirmi la porta scorrevole un ragazzino, occhi vispi e guance lisce, il cappellino della squadra di calcio locale sulla fronte, marsupio alla vita e un piglio da adulto che male si attacca alle sue mani molli e pallide.
Sembra un passeggero come gli altri, magari seduto qualche sedile lontano dalla mamma. Poi si gira e mi chiede di rendergli il costo del passaggio. Lo guardo stupito. Nell’attesa che sviscerassi le tasche alla ricerca di due spicci, butta la testa fuori dal finestrino in movimento e strilla con tutto il fiato in gola il nome di un quartiere incomprensibile dove il minibus è diretto. Rimette la testa dentro, non ho spicci, pago in banconota, si sporge allora verso l’autista due sedili più avanti e chiede “Papi, tienes cambio?”. Mi porge il resto e sorride.
Un bambino, forse non più di sette anni, che affianco al papà lavora la sera tardi come bigliettaio, tra sguardi di passeggeri assonnati e brilli. La mattina dopo magari si sarebbe svegliato presto per andare a scuola, con lo stesso cappellino della squadra del cuore. Un bambino, come lo sono stato io, come lo siamo stati tutti, che però mi ha inchiodato nel pensiero della mia infanzia soffice. Io, a sette anni, la sera, d’inverno, me lo ricordo bene, mi rannicchiavo nelle coperte tra le preghiere di mamma, le sue mani ruvide a scompigliarmi piano i capelli.
Cadevo nel sonno con le sue ultime sillabe, dormivo aspettando di essere svegliato dalle stesse mani. Non avevo porte da aprire, monete da ritirare, strade da urlare, volti da incrociare. Mi abbandonavo al tempo placido della sera come in un dipinto di pastelli. Per quel bambino invece la sera è uno spettacolo già visto centinaia di volte, duro e senza mistero come l’ultima pagina di un libro letto troppe volte.
Allora, perso nel via-vai riflesso nel finestrino, ho pensato a tutti i volti che ho riconosciuto in quel bambino.
Ci ho riconosciuto gli occhi dei piccoli accolti nell’asilo nido dove presto servizio, incoscienti di avere alle spalle la disperazione di mamme abbandonate. Il tremolio della voce dei giovani compagni di tetto in comunità, alcolisti, mentre raccontano il passato di violenze subite per mano del padre, alcolista pure lui.
Ci ho riconosciuto le lacrime di chi con l’inganno s’è ritrovata buttata su un marciapiede a dover vendere il proprio corpo, dietro la minaccia di far del male alla propria famiglia dall’altra parte del mare. I sorrisi stanchi di chi vive in macchina da settimane perché le banche gli hanno portato via le chiavi di casa.
Ci ho riconosciuto i piedi scalzi degli adolescenti congolesi camminare chilometri ogni giorno per raggiungere l’unico centro educativo fuori della città. Le mani piene di calli di chi è abituato a spingere la propria carrozzella da decenni, morto dalla vita in giù.
Ci ho riconosciuto la tosse tisica dei minatori boliviani, liberi di scegliere l’unica fonte di lavoro tra le montagne del sud, nella consapevolezza di non arrivare a vedere i propri quarant’anni. Le pupille rosse dei migranti venezuelani pregare i passanti di scambiare le proprie banconote, ormai cartastraccia, per un pezzo di pane.
Ci ho riconosciuto le schiene curve delle vecchine del campo mentre tornano a casa alla sera col fagotto colorato gonfio della frutta invenduta.
Ogni volto, ogni storia, mi ricorda la mia di storia, da dove vengo, chi mi ha cullato fin qui. Mi rendo finalmente conto che nelle pieghe della quotidianità scegliere, volere, è un lusso che appartiene a pochi, quando milioni di mani sono attaccate alla fune di un tempo già scandito. Sì sono stato fortunato, sì sono stato baciato dalla sorte, sì sono nato nel lato giusto del mondo, in un indirizzo che mi fosse davvero casa, con persone che mi fossero davvero famiglia, tra strade dove sentirmi sicuro, amato.
Tanto basta per far nascere quel senso di colpa che accende l’anima. Il mondo così com’è non è giusto e vederne le distanze, i dislivelli, è il primo passo per farsene responsabili. A volte basta fermarsi a osservare, un bambino, una donna, un vecchio, leggerne negli occhi la storia, il passato, la sorte. Tanto è sufficiente per vedersi riflesso, vedersi diverso, capirsi irrimediabilmente lontano.
Nascondersi dietro il sipario dell’individualismo ci fa piccoli e inutili, ciechi all’evidenza del mondo. Oggi lo so, e ringrazio il sorriso timido di quel bimbo al lavoro per avermelo raccontato.
Nel mio errare ho visto molte cose, tante di più ne ho sentite, provate, da quando ho deciso di far diventare la mia vita un filo ingarbugliato d’incontri semplici. Molte negative, alcune difficili da ricordare. Sopra ogni cosa però ho scoperto il mare di braci calde che si nasconde sotto la superficie della normalità. Un prisma di colori aspri e vivaci che rende tutto perfettamente instabile e vivo.
Non so dove sarei se avessi continuato a seguire i binari lineari del tempo in cravatta. Di sicuro però non avrei scoperto cosa si nasconde sotto la crosta della pacifica quiete. Ed ora non sentirei tutti questi occhi attaccati ai miei, come un solo paio di pupille.
Ogni tanto ci ripenso, e mi rendo conto di aver fatto la scelta più giusta al mondo. Pace mamma.
Andrò ancora per le strade del mondo con occhi sinceri
cercherò ovunque il dolore, la gioia dell’uomo
conterò le lacrime amare di chi soffre
i sorrisi di chi attende con mani protese in avanti.
Andrò ancora senza un orario, senza bandiera
mi chinerò su malati e fontane, su volti di bimbi
camminerò fra sporcizia e denaro senza fermarmi
andrò ancora e quando tornerò sarò più vecchio e migliore.
Non sarò mai triste né stanco.
Andrò ancora e se tornerò sarò senz’altro migliore
andrò ancora per le strade del mondo, potete contarci.
Andrò ancora, testo di Riccardo Mannerini e Fabrizio De André, dall’album dei New Trolls Senza orario, senza bandiera del 1968
Foto: Nicolò Segato e Emanuele Marafante
Guglielmo sei un cercatore ,speciale nella tua indagine interiore, che ti spinge ossessivamente ma positivamente a chiederti perché io si è gli altri no.E il bello è che non ti è capitato ma, come spinto da un bisogno interiore ,sei costretto a seguire un Io positivo che ti catapulta tra i sofferenti,gli abbandonati,i violentati gli abusati. Beato te che chiamato da questo spirito e forza osi andare e vedere e fare.Quale bellezza più grande dell’affidarsi ad una Provvidenza coraggiosa che ti nutre di reale donarsi agli altri.Quale emozione più grande del percorrere la strada in cui ci sentiamo chiamati.La tua mamma dovrà anche lei ,e già lo fa, capirti .Ma non è facile partorire di nuovo il proprio figlio e tagliare quel cordone. Che Dio vi benedica
Grazie Rita, c’è tanta bellezza qui, una bellezza che si mischia con la miseria, la povertà, l’oppressione.
Mamma credo che da un po’ abbia capito che in questa scelta ci sia solo il riflesso dei valori insegnati in 18 anni sotto lo stesso tetto.
Un abbraccio!
Guglielmo