“A un imperatore melanconico, un viaggiatore visionario racconta di città impossibili. Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che possono valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi”.
Si avverte un sottofondo di Mille e una notte, il riferimento letterario scelto da Italo Calvino per le sue Città invisibili. L’atmosfera onirica e l’ambientazione esotica hanno apparentemente ben poco a che spartire con l’attualità dei nostri neanche cento di chiusura in casa, monotoni e tesi, niente di più lontano da Shahrazād e il suo Oriente incantato. Per molti è comprensibilmente ancora difficile entrare nel mood di quei discorsi motivazionali che frequentemente invocano il wēijī, la parola cinese per crisi. “Scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità”: l’ha menzionata anche JF Kennedy in un discorso del 1959; probabilmente è un’interpretazione errata, ma tant’è.
Un altro modo di vivere la città
Sforzandoci di scostare il velo di incertezza e restrizioni che attanaglia il nostro presente, possiamo accorgerci di come stiamo vivendo un esperimento planetario che passa inevitabilmente anche attraverso lo spazio che ci circonda. Nella storia recente non era mai capitato che tante persone modificassero drasticamente e così a lungo consuetudini ben radicate. Per alcune settimane la vita nelle città è stata messa in pausa. Strade silenziose, cieli vuoti, parchi deserti, cinema, bar e musei chiusi. La frenesia da lavoro e da acquisti, così familiare fino a pochi mesi fa, si è interrotta. L’isolamento ha creato delle città sospese. L’emergenza sanitaria ci ha offerto una nuova prospettiva su problemi e limiti della vita urbana. Le città sono snodi cruciali della nostra società globale interconnessa. Facilitano la circolazione di persone, prodotti e denaro. L’interconnessione ha svelato il suo lato oscuro, trasformando un’epidemia locale in pandemia. I collegamenti hanno quindi lasciato spazio alle relazioni, online o nelle rare e motivate uscite ci siamo riscoperti meno egoisti e più attenti al prossimo, accorti nell’accogliere le disposizioni di pubblica utilità e coraggiosi nell’assistere i bisognosi. La sfera individuale ha lasciato spazio a quella sociale, un concetto decisamente più cinese della duplice natura della crisi.
La calma che restituisce spazi e le nuove paure
Il blocco della normalità delle nostre vite ha tolto, ma ha anche restituito spazi. Per alcune settimane il panorama stradale è stato un’immagine invertita della realtà a cui i suoi abitanti sono abituati. Guidare è diventato stranamente piacevole: ingorghi rari, benzina meno cara e molti parcheggi. Si riesce a trovare parcheggio ovunque. Sui marciapiedi la situazione è molto diversa. Quelle isole felici ai lati della strada dove gli amici s’incontravano e si fermavano a chiacchierare – molto spesso agli angoli delle strade, come ha osservato l’urbanista William H. Whyte in un articolo su Internazionale – improvvisamente sembrano zone pericolose e particolarmente malsane.
Cose che prima avrebbero potuto provocare una leggera irritazione – la coppia che si ostina a correre fianco a fianco su un marciapiede stretto, l’uomo con il cane che distrattamente srotola un lungo guinzaglio, la famiglia numerosa che passeggia tutta unita – ora sono fonte di ansia. Le solite strategie di un pedone per evitare di finire addosso a un altro, come sfruttare piccoli ritagli di marciapiede tra gli alberi e i bidoni dell’immondizia, non bastano più. Siamo costretti a camminare sulla strada o sulle piste ciclabili. Al supermercato una parte della fila, lunga un isolato e mezzo (per via dei due metri di distanza tra un cliente e l’altro), si sposta sulla strada per lasciare il marciapiede ai pedoni. I momenti di crisi, che sconvolgono le abitudini e incoraggiano la riflessione, possono aiutarci a capire meglio quali erano i problemi della vita quotidiana prima della crisi.
Nuovi interrogativi, nuove prospettive
Siamo stati scaraventati per meno di cento giorni – scanditi dai Dpcm datati 11 marzo e 3 giungo – in un colossale esperimento in tempo reale per scrutare il futuro delle nostre città. A cosa serve davvero una città? A favorire la crescita, attirare investimenti e competere con i rivali sulla scena globale? O a migliorare la qualità della vita di tutti, favorire la sostenibilità e la capacità di affrontare le difficoltà? Un approccio non esclude sempre l’altro ma, in questi mesi di sospensione, la ricerca di un punto di equilibrio è diventata vitale per la vita urbana. In molti paesi la pandemia è stato il via libera a cambiamenti rapidi per controllare meglio economia, sanità, trasporti e approvvigionamenti. Le città hanno conosciuto temporanee misure di politica urbana progressista: blocco degli sfratti, nazionalizzazione dei servizi, assistenza sanitaria e trasporti pubblici gratuiti, congedi per malattia e salari garantiti. Le idee radicali di ieri sono diventate le scelte pragmatiche di oggi.
La pandemia ha involontariamente fornito lo spunto per un interrogativo esistenziale: che cos’è una città?
Le città invisibili sono uno straordinario compagno di viaggio in questa riflessione: non forniscono soluzioni ma spingono alla ricerca della comprensione della realtà. La ridefinizione di ciò che ci circonda è alla base del romanzo. Sul finire degli anni Sessanta Calvino, come molti altri autori in giro per il mondo (su tutti, basti pensare al realismo magico in America Latina https://www.dellumanoerrare.it/2020/06/24/gli-occhi-socchiusi-sullamerica-latina/), aderisce ad un nuovo modo di fare letteratura, intesa come artificio e come gioco combinatorio. Per lo scrittore ligure è necessario rendere visibile ai lettori la struttura stessa della narrazione, per accrescere il loro grado di consapevolezza. Questa sorta di riscrittura de Il Milione di Marco Polo in cui è lo stesso mercante veneziano a descrivere a Kublai Khan le città del suo impero. Queste città però non esistono tranne che nell’immaginazione di Marco Polo, vivono solo all’interno delle sue parole. La narrazione quindi per Calvino può creare dei mondi ma non può distruggere l’inferno dei viventi che sta intorno a noi, per combattere il quale, come suggerito nella conclusione del romanzo, non si può far altro se non valorizzare quello che inferno non è.