«Si, certo, se domani è bel tempo – disse la signora Ramsay. Ma dovrai alzarti con le allodole» aggiunse.
Le prime parole, queste, di un’opera che ha fatto la storia della letteratura moderna, stiamo parlando di To the Lighthouse di Virginia Woolf, pubblicata per la prima volta nel 1927. La trama è “semplice”, la proposta di una gita al Faro. Il sospeso narrativo è: si farà o non si farà? Chi ha letto sa, a chi non ha letto consiglio di andare a scoprirlo (tranquilli, no spoiler alert). Il piccolo James, figlio dei coniugi Ramsay, comunque spera di sì. Ma quando? Domani, dice la madre.
Domani è una parola che ricorre spesso negli scritti di Woolf, che non cessa mai d’interrogarsi sul senso dell’esistenza, sul suo trascorrere e sul nostro percepire il tempo che passa.I grandi romanzieri hanno scritto dei lunghi tempi della storia, hanno raccontato di vite intere, hanno nutrito generazioni d’eroi, ma chi si è soffermato sull’istante scandito dalla lancetta?
Chi ha raccontato, pare chiedersi Woolf, dei piccoli ed insignificanti attimi d’esistenza che diamo per scontati? Dove sono i dettagli, i secondi? Perché sono stati spesi fiumi di parole nel raccontare discussioni e scambi di battute di commensali seduti a tavola, ma mai su che cosa si sia mangiato durante quei pranzi? Chi ha raccontato il viaggio delle briciole cadute sulla tovaglia?
E ora, chiedo io, chi è stato in grado di accostare le briciole e l’infinito?
È questa la grande dote di Woolf, io credo. Avere saputo descrivere con perizia insuperabile i “tempi morti” della nostra esistenza quotidiana ed i moti istantanei della nostra mente, lasciandoli fluire in un fiume che scorre perpetuo. Rivelare l’attimo e l’eterno, simultaneamente, attribuendo ad entrambi la medesima grandiosità, una identica dignità, permettendogli di confrontarsi, di raccontarsi l’uno di fronte all’altro come due amici tenuti per troppo tempo lontani, finalmente seduti insieme all’ora del tè.
Non le restava altro da fare, ora, che ammirare il frigorifero, e sfogliare le pagine del catalogo dei grandi magazzini sperando di scovare un rastrello, o un tosa erba (…). Ma all’improvviso, mentre voltava pagina, la sua ricerca della figura di un rastrello o di un tosaerba s’interruppe.
La signora Ramsay è nella sua casa di villeggiatura, nelle isole Ebridi, insieme alla sua numerosa famiglia e agli ospiti di cui lei ama prendersi cura. Sta sfogliano una rivista, in un momento d’esistenza quotidiana, in un tempo “insignificante” cui non si dà peso, un’azione collocata ai limiti del percepibile, resa scontata dalla banalità che le si attribuisce, una donna che legge un giornale. Intanto il marito in casa conversa con altri uomini, i ragazzi fuori in giardino giocano insieme.
Il mormorio roco, zittito a tratti dal gesto di mettersi o togliersi di bocca la pipa, le assicurava, pur non udendo ciò che dicevano (…) che gli uomini stavano amenamente conversando (…);
ad un tratto, però, i pensieri della donna si fermano, s’interrompono e cambiano strada, infatti
quel mormorio che durava ormai da mezz’ora e si inseriva confortevole nella scala di rumori che su di lei si addensavano, i colpi delle palle contro le mazze, un latrato, repentino e acuto di tanto in tanto, i “Che ne dite? Che ne dite?” dei ragazzi che giovano a cricket, era cessato (…).
Quello sciabordio sicuro e monotono delle onde sulla spiaggia lentamente si trasforma e non è più materno, ci porta altrove. Dolcemente Woolf ci prende in braccio, con delicatezza come fossimo bambini senza che ce ne accorgiamo, e in una progressione lieve, invisibile ci lancia insieme alla signora Ramsay nel mare dell’infinito a conoscere la nostra finitezza, sussurrandoci un impercettibile “ora nuota” e
all’improvviso e inaspettatamente (quello sciabordio delle onde) perdeva quel significato benevolo, anzi, come uno spettrale rullio di tamburi scandiva senza rimorso la misura della vita, induceva a pensare alla distruzione dell’isola al suo inabissarsi nel mare, e l’ammoniva, lei che consumava i suoi giorni in un susseguirsi di frettolose attività, che tutto è effimero quanto un arcobaleno (…).
Ora nuota, ora rifletti, ora domandati perché sei qui, perché esisti, per quanto ancora. Ora lotta. Lottare contro cosa, Woolf? Lottare contro il trascorre del tempo in futili cose, contro il suo passaggio, lotta contro le lancette che corrono e ti sottraggono spazio per cercare risposte alle tue domande, credo direbbe lei. In un secondo si passa dall’attimo all’eterno, il dettaglio sfocia in una considerazione sull’universale. Così come le luci in lontananza che vediamo durante una passeggiata serale in un istante ci portano altrove e ci inducono a pensare alla vita, alle sue sofferenze, alle sue ombre.
Era tardi, vero? Disse. Non erano ancora rientrati. Lui aprì con noncuranza l’orologio. Ma erano poco più delle sette. (…). Avevano raggiunto il varco fra i due ciuffi di tritomi rosso fuoco, ed ecco di nuovo il Faro (…). Si girò a guardare il paese. Le luci s’increspavano e scivolavano via come fossero gocce d’acqua argentea intrappolate nel vento. La povertà, la sofferenza si erano trasformate in questo, pensò la signora Ramsay. Le luci del paese, del porto e delle barche sembravano una livida rete che fluttuava laggiù per segnalare i resti di un naufragio.
In un momento della vita interiore di questa donna, che Woolf ci regala d’esplorare, lei guarda i propri figli piccoli, giovani e pensa che non saranno mai più così felici. Quando smetteranno di esserlo? Quando finisce il tempo in cui l’essere umano è in grado di vivere d’illusioni? To the Lighthouse il titolo originale del romanzo (in Italia tradotto con Gita al Faro) ha in sé il senso di una tensione, di un andare verso qualcosa, un filo che nel racconto rimane sempre teso, come quello di una ragnatela fino a quando qualcuno o qualcosa non ci capita dentro a distruggerne la tessitura, sarebbe forse questa, credo, l’immagine che userebbe Woolf. La prima sezione del romanzo si svolge nell’arco temporale di un unico giorno. Ma l’intreccio ordito fino a qui, sul tessuto di una possibile gita al Faro, verrà presto snodato. Chi scrive sa quanto sia difficile, da un momento all’altro, lasciare in sospeso e abbandonare quanto si era raccontato fino ad allora, cambiare via, passare ad un’altra scena. Separarsi, se necessario, da un proprio personaggio, come da una propria creatura. Io ho una mia immagine personale di Virginia Woolf, seduta ed intenta a macchiare il foglio con una punta d’inchiostro alla fine del primo capitolo, avendo già in mente il colore dei fili con cui tesserà il prossimo. Woolf è una Penelope armata di penna che, arrivata alla fine di questo giorno, dopo aver seguito i suoi personaggi nelle loro vite, nei loro amori, nelle loro paure, nelle loro luci e nelle loro ombre, si vede costretta a disfare la tela nel buio della propria stanza. Ma lei sa che è così che deve essere, perché è la vita che così vuole,
la vita, fatta com’è di singoli, piccoli avvenimenti che si vivono uno per uno, s’increspava e diventava un tutto, come un’onda che ti solleva e insieme a te si rovescia, con un tonfo sulla spiaggia.
E anche la Signora Ramsay che per tutto questo tempo ha tessuto un calzerotto a maglia sa che non potrà finirlo.
Non lo finirai stasera quel calzerotto,- le disse (il marito), indicando il lavoro a maglia. Era ciò che lei voleva – l’aspro tondo rimprovero della sua voce. (…) -No,- disse lei, appiattendo il calzerotto sul ginocchio,- non lo finirò.
Non lo finirà. Si chiude con questa musica di sottofondo il primo capitolo intitolato The window, la finestra. Un luogo da cui si osserva, da cui si guarda Il Faro, l’ultimo dei tre capitoli, che forse si andrà a visitare. La finestra, lo spazio delle nostre speranze, il luogo del Domani. Di nuovo questa parola, che apre e chiude il capitolo sempre pronunciata dalle labbra della signora Ramsay.
«Sì, avevi ragione. Domani pioverà». Non l’aveva detto, ma lui capì. E lei lo guardò sorridendo. Perché aveva trionfato ancora una volta.
A far sbattere le persiane della quotidianità di questa famiglia è il sopraggiungere del vento funesto della Storia, che aprirà il secondo capitolo Time passes, il tempo passa. Non senza però lasciarci con uno spunto di riflessione, una sorta di amaro in bocca che avvertiamo e che non possiamo fare a meno di chiederci da dove provenga, che non possiamo non indagare. Si è fatta tarda sera e per i personaggi, come per noi che ormai siamo stati risucchiati nel mondo del racconto, è ora di andare a dormire. I due coniugi sono seduti a leggere, il marito guarda la moglie, lui sta leggendo un romanzo, lei poesia. I pensieri del signor Ramsay ci vengono sbattuti in faccia, chissà se sua moglie capisce quello che sta leggendo, probabilmente no, però è così bella. A lui sembra quasi che la sua bellezza, con il tempo, si vada accentuando. È questa l’immagine indelebile che, alla fine del capitolo primo, ci introduce alla prima grande cesura del romanzo, che è poi la prima grande cesura del Novecento: la Prima Guerra Mondiale. In seguito a questo avvenimento la casa di vacanza della famiglia Ramsay nell’isola di Skye, nelle isole Ebridi, viene abbandonata. Il tempo della guerra non ci viene raccontato, o meglio, ci viene descritto tramite i suoi effetti collaterali, postumi, nel modo obliquo in cui la luce lontana di un faro sulla scogliera entra nella finestra di una casa. La disgregazione ci è descritta attraverso un’immagine comunque, quotidiana, quella di una casa vuota da molto, disabitata. Il luogo di villeggiatura di una famiglia comune, come sono i Ramsay.
Così, con la casa vuota e le porte sprangate e i materassi arrotolati, quei refoli sparsi, avanguardie di eserciti, si precipitavano dentro, spazzavano il nudo impiantito, rosicchiavano e soffiavano, senza incontrare niente nelle camere da letto o in salotto che opponesse davvero resistenza, solo lembi di tappezzeria sventolanti (…). Ciò che le persone avevano usato e lasciato lì – un paio di scarpe, un berretto (…) – quelle cose soltanto serbavano la forma umana e col vuoto testimoniavano la pienezza e l’animazione di un tempo (…). Adesso, giorno dopo giorno, la luce proiettava, come un fiore riflesso nell’acqua, la sua immagine chiara sulla parete opposta.
Ma la casa reggerà al tempo, solo un po’ impolverata
Notte dopo notte, d’estate e d’inverno, il tormento delle burrasche, la statica tensione del bel tempo, tennero corte senza interferenze
e quando il periodo della guerra sarà finito ci torneremo, in questa casa sull’isola di Skye, qualcuno però resterà indietro.
Note bibliografiche
Edizione inglese, To the Lighthouse, Macmillan Collector’s Library, London, 2017. Edizione italiana, Gita al Faro, Traduzione di Anna Nadotti, Introduzione di Hisham Matar, Einaudi, Torino, 2014.
Foto di Martina Beltrami
Un ringraziamento a Sara Sullam, ricercatrice dell’Università Statale di Milano, per aver trasmesso una grande passione per la Letteratura Inglese e aver illuminato agli occhi dei suoi studenti la grandezza di questa autrice.
Considerazioni che in momenti come questi ci fanno da guida resiliente e consapevole del tempo, percepito, in senso lato, come esistenza.