L’autobus segue la strada lungo il Mar Mediterraneo che va da Haifa a Tel Aviv. Guardo il paesaggio e penso a quanto questi dieci intensi giorni non siano stati abbastanza per assaporare interamente la cultura israeliana. Dentro l’autobus, 35 ragazzi ebrei italiani che, come me, hanno avuto la fortuna di ricevere un viaggio gratuito (Taglit) in Israele da parte della comunità ebraica. Ripenso a tutti i momenti passati insieme, tutti i paesaggi e le persone con cui siamo riusciti ad entrare in contatto grazie a questa comunità. Sorrido, perché adesso anche io mi sento parte di questa comunità, ma se c’è una cosa che ho imparato da questo viaggio è che non ho la minima idea di cosa voglia dire essere ebreo. Non è semplicemente il fatto di avere genitori ebrei, e nemmeno portare avanti le adeguate tradizioni religiose.
Essere ebreo non vuol dire rispettare le Mitzvot, la Shabbat o mangiare Kosher. Non sono ancora riuscita a trovare un significato ben definito della parola “ebreo”, ma di sicuro non si ferma all’aspetto religioso e lo stato di Israele ne è la prova. Quando si parla di israeliani in Israele, si parla di ebrei. Ebrei è quindi quasi una nazionalità. Essendo io ebrea, potrei richiedere la cittadinanza israeliana e ottenerla direttamente, senza nessun altro prerequisito.
Questo è esattamente ciò che ha deciso di fare Lea, una ragazza di 22 anni romana, che alla tenera età di 19 anni si trasferì da sola in Israele. “La prima volta che ci sono stata è grazie a un viaggio Taglit come il vostro, qualche anno fa – ci diceva, indossando la sua uniforme – mi innamorai del Paese e sentii un forte bisogno di tornare. Così una volta finito il liceo feci l’Aliyah, per poi arruolarmi nell’esercito. Chissà magari tra qualche anno sarete voi qui a parlare con questa uniforme”. In Israele la vita di un giovane è diversa. Con il servizio militare obbligatorio per due o tre anni a seconda del tuo sesso, l’università passa in subordine rispetto al tuo dovere di difendere e servire la Nazione. Aver avuto come compagni di viaggio otto soldati israeliani mi ha cambiato la vita. Se i media europei descrivono il servizio militare obbligatorio come un crudele modo di togliere la libertà a giovani israeliani, è evidente che nessuno di questi giornalisti è mai stato in Israele.
“Gli europei sono ignoranti” ci dice Naama, la nostra guida israeliana, la cui nonna, morta ad Auschwitz, è riuscita a nascondere la figlia da amici italiani durante l’olocausto. “Io sono italiana, sono toscana per la famiglia che ha salvato mia madre. Ma la mia casa è qui, in Israele, perché sono ebrea”.
Naama ha cinque figli, due dei quali generali dell’esercito e una che sta per arruolarsi. Quando parla dei suoi “bambini”, che combattono per difendere l’unico Paese che li ha accolti dopo la seconda guerra mondiale, le si illuminano gli occhi. Israele è uno Stato giovane, particolare, che ha richiesto e richiede tanta dedizione per il suo sviluppo. Credo sia questo il motivo principale per cui nessun soldato che ho conosciuto si è mai sentito costretto a servire il proprio Paese.
Dai soldati armati di fucile fermi in coda per comprare dei falafel, ai carri armati che si trovano circa ogni chilometro nelle strade di periferia, è evidente come in Israele la violenza sia diventata, purtroppo, normalità per necessità. La guerra, per quanto al momento limitata alla striscia di Gaza, non finisce mai e in Israele c’è ancora la necessità di avere un esercito che sia presente anche tra i civili.
Avere il viaggio interamente organizzato e gestito dalla comunità ebraica ha aiutato tantissimo per la sicurezza, perché comprendeva una guardia armata 24 ore su 24, un autobus privato e un programma deciso accuratamente dalla comunità stessa. È solo grazie a questo tipo di organizzazione che ho potuto visitare in dieci giorni più di venti posti diversi. Dalle alture del Golan, dove sono ancora visibili i bunker usati nella guerra del 1973, passando da Masada, fino alle lunghe spiagge di Tel Aviv.
La prima tappa del nostro viaggio è a Nord, dove alloggiamo in un Kibbutz, ovvero una comunità chiusa di famiglie ebree. I Kibbutz sono come delle piccole società dove i dipendenti sono i residenti e tutti hanno lo stesso stipendio. Non importa se sei il capo o un semplice residente, lo stipendio è uguale per tutti. La convenienza sta nel fatto che, una volta entrato in un Kibbutz, questo garantisce per il totale sostentamento dei tuoi figli, e si sa, gli ebrei sono soliti avere molti figli. La sera puntiamo la sveglia alle 3 e 30, dobbiamo partire dal Kibbutz prima dell’alba per poter raggiungere Masada. Camminiamo nel deserto per circa un’ora e arriviamo in cima a un’altura dove si trovano delle rovine bizantine. Da lì osserviamo il sole salire dalle montagne che si vedono in lontananza, dietro al Mar Morto.
Appena sorge il sole ci incamminiamo per scendere il prima possibile, anche se ormai (e sono solo le 7 e 30) il caldo è già insopportabile. L’autobus ci aspetta sotto l’altura e ci porta, dopo una sosta sul Mar Morto e poi seguendo un altro percorso, a Masada. Il deserto offre un paesaggio emozionante, ma dopo altre due ore di camminata avrei preferito rinunciarci. “Fidatevi”, ci diceva Naama. Non è che avessimo altre scelte. Ed ecco, come per miracolo, aprirsi in mezzo al paesaggio desertico una valle con una fiume che formava una cascata e un piccolissimo lago. Ci buttiamo dentro questa oasi meravigliosa solo per qualche minuto, poi torniamo all’autobus e guardiamo il tramonto dal finestrino.
Tappa successiva Gerusalemme.
Entrare a Gerusalemme è un po’ come leggere una versione liceale di latino. Le stradine della città si intrecciano tra strati di storia: le scale collegano le varie fasi di distruzione e ricostruzione della città, dal periodo babilonese a quello turco, passando dal periodo romano. Non appena superati i controlli di sicurezza, che ricordano un po’ quelli di un aeroporto, si apre davanti a noi un’immensa piazza, dove a dirla tutta ci saranno stati più militari armati che uomini. A stonare con le pietre degli edifici circostanti, quasi dorate per la luce del sole, un tubo nero di plastica che, per la sua forma, ricorda l’ala di un aereo. Seguendo questo tubo con lo sguardo, noto l’imponente muro che taglia la piazza verticalmente. Ci avviciniamo e ci laviamo le mani nelle brocche d’oro di una fontana. Uomini e donne si dividono e andiamo verso il Muro del pianto.
Intorno a me donne e bambine per mano, che si coprono gli occhi con la Torah e pregano. Le loro parole sono strozzate dalle lacrime che scendono senza sosta, bagnando quel muro contro cui tutti appoggiano la fronte. Dopo essermi ripresa dallo shock iniziale, mi allontano senza aver toccato il muro, camminando all’indietro fino all’uscita per non dare le spalle a quel mare di disperazione. Non volevo e non dovevo toccare il muro senza prima sapere cosa ci fosse dietro quel muro. Scopro che quel braccio nero che tanto spiccava non è altro che l’unico accesso alla spianata. È sorvegliato da uomini armati che si assicurano di far entrare esclusivamente arabi musulmani. Ecco la situazione “particolare” di cui parlava Naama: la divisione etnica in Israele tra arabi israeliani, palestinesi ed ebrei. A Gerusalemme è più forte che in qualsiasi altra città israeliana. I palestinesi che vivono a Gerusalemme non hanno gli stessi diritti degli arabi israeliani.
Non hanno la cittadinanza israeliana, pur vivendo fisicamente nello Stato di Israele, e possono solo partecipare al voto per l’elezione del sindaco di Gerusalemme. Non hanno un passaporto ma solamente un documento che attesta la loro residenza nella città. Sono, in pratica, i figli di nessuno.
Un’ulteriore minoranza, poco menzionata, sono i beduini e comprendono intere famiglie che hanno scelto di vivere in modo autosufficiente nel deserto. “Beduin is a way of life” ci dice il beduino da cui dormiamo nel deserto del Negev mentre ci offre la prima delle tre tazze di caffè che è doveroso porgere a tutti gli ospiti della tenda. Ci racconta che ormai pochissimi beduini riescono a vivere ancora nel deserto a causa della guerra. Lui, per esempio, per portare ancora avanti le sue tradizioni ha una tenda dentro casa.
Prima del tramonto ci riuniamo tutti sotto una tenda appositamente attrezzata per la cena. Ci sediamo per terra a gambe incrociate intorno a un tavolino rialzato e prendiamo con le mani dell’insalata per riempire il pezzo di pita che ci hanno dato. Scende la notte e accendiamo un falò fuori dalla tenda per riscaldarci il più possibile. Uno dei soldati aveva portato la chitarra, così iniziamo a cantare La canzone del sole tutti insieme, per poi passare a tipiche canzoni ebraiche. Si aggiungono al gruppo ragazzi ebrei russi, francesi, e americani, che alloggiano nella tenda accanto e prima che il freddo diventi insopportabile, decidiamo di andare a vedere le stelle in mezzo al deserto. La tenda dove alloggiamo è particolarmente vicina al confine con la Giordania, ma, per lo spettacolo del cielo che ci circondava, non ce ne curiamo troppo. Il silenzio del deserto è rotto improvvisamente dal suono fortissimo di due aerei da caccia che quasi toccano il suolo, accompagnato da spari di mitraglia in lontananza.
Corriamo verso la tenda e ci spiegano che molto probabilmente era solo un’esercitazione di una base militare vicina, ma non si può mai sapere con certezza. Anche se mancano solo quattro ore alle sveglia, cerchiamo di addormentarci nella tenda tra 44 sacchi a pelo. Spostandoci tra un sacco e l’altro, ancora un po’ frastornati dal gelo dell’escursione termica, ci incamminiamo verso il deserto del Negev. Dopo due ore di camminata, tra lacrime, sudore e risate, ci si apre davanti a noi un paesaggio mozzafiato. Le alture rocciose stratificate sono divise da una valle attraversata da un fiumiciattolo che crea una distesa quasi surreale. Israele non ha filtri. Non è, come altri posti del mondo, costruito per coccolare i turisti.
È un Paese che ha infinita cultura da offrire ma non la pone su un piatto d’argento. Per vedere le bellezze di Israele bisogna scavare e scoprirle da sè, il che non è sempre facile, ma fidatevi, ne vale la pena.
Testo e foto di Vittoria Dentes (Leggi anche: L’umano errare di Vittoria)