“I primi due occhi che hanno visto il Nuovo Mondo sono di Triana”.
Sulle origini di Cristoforo Colombo esistono svariate teorie. Alla più nota – e peraltro più probabile – che lo vuole nato a Genova, il paese dai mille campanili contrappone il comune di Cogoleto e Terrarossa Colombo nella sola provincia genovese; Chiusanico in provincia di Imperia; Cuccaro Monferrato nell’alessandrino; Savona, Albissola Marina nella Provincia di Savona, e Bettola, nel Piacentino. Fuori dal nostro paese ci contendono i natali dello scopritore delle Americhe: la Spagna che arriva ad ipotizzare origini ebraiche al suo Cristobal Colon; il Portogallo che lo vorrebbe spia ingaggiata per sviare l’attenzione spagnola dall’Africa; e la Polonia che lo eleverebbe al rango di figlio del re Ladislao III.
Al pari del comandante che sognava di “buscar el Levante por el Ponente”, anche il suo sottoposto che per primo, secondo il giornale di bordo alle due di mattina del 12 ottobre 1492, dalla cima dell’albero maestro scorse qualcosa all’orizzonte e grido “Terra!”, ha un’origine contesa. A Siviglia però non hanno dubbi: la vedetta era andalusa. I primi due occhi a scorgere il Nuovo Mondo, quelli di Rodrigo de Triana, sono dunque cresciuti guardando l’antico barrio gitano, separato dalla città dal fiume Guadalquivir. Quello che in passato – per la povertà, la delinquenza e l’atmosfera popolare che vi si respirava – era considerato il “lato sbagliato” della città, a cui era collegato solo da un ponte di barche, fino a quando alla metà dell’Ottocento venne costituito il primo dei nove ponti principali che attraversano il fiume (oggi invece Triana pullula di graziosi ristoranti che vi consigliamo di provare).
Quella della leggenda di Rodrigo da Triana è solo una delle curiose storielle contenute nell’opuscolo che consegnavo agli ospiti dell’ostello dove ho vissuto e lavorato a Siviglia, tra il marzo e il maggio del 2018. Quelli che possono serenamente definire i tre mesi più divertenti della mia vita.
Il kitsch e le bellezze di Siviglia
“L’esperienza in ostello è economica”, dice il gretto materialista. “L’esperienza in ostello arricchisce”, gli risponde il sognatore idealista. Il mio era un ostello difficilmente etichettabile, come può confermare il nome: Sevilla Kitsch Hostel Art. Anche difficilmente pronunciabile dai locali, ho scoperto non appena approdato in quella che per una stagione è stata la mia città. Sfatiamo un falso mito, quello della lingua spagnola a cui basterebbe aggiungere la “s” per rendere madrelingua un italiano. Può anche avere qualche base di validità, che però scompare non appena da Madrid, percorrendo l’Autovía A-4 verso sud, si varca il confine della regione di Castiglia-La Mancia: gli andalusi non pronunciano la “s”, neanche per sbaglio.
Con il mio bagaglio di stereotipi infranti ho quindi varcato la porta della mia casa temporanea, e condivisa con una media di venti persone – che diventano il doppio nei weekend e con l’inoltrarsi della primavera verso l’estate, fino a raggiungere il limite della capienza, coi 55 ospiti raggiunti nei festivi di maggio.
“Kitsch” è il termine con cui i tedeschi indicano lo stile di oggetti presuntamente artistici, ma in realtà di cattivo gusto. Non penso che l’obbiettivo di Marilò, la padrona del Kitsch, quando ha scelto quel nome, fosse colpire gli ospiti col senso di ambiguità e patetico di oggetti trash. È semplicemente il gusto eccessivo e sentimentale, la pulsione vitale che gli andalusi declinano, nel migliore dei casi, nello sfarzo del barocco e, nel peggiore dei casi, in oggettistica di dubbio gusto.
Quella particolare declinazione di kitsch che il Sevilla Hostel Art ha scelto come arredamento, faceva però breccia sugli ospiti. Almeno al pari della posizione: l’ostello è situato nel cuore di Siviglia, a 10 metri dall’Alcazar – l’antica fortezza moresca, poi trasformata in palazzo reale con un giardino lussureggiante, in cui è possibile ammirare anche dei pavoni e dove sono ambientate alcune puntate della prima stagione de Il trono di spade.
Il costo decisamente abbordabile del pernottamento, il curioso arredamento, la posizione ma soprattutto lei: la terrazza con vista sulla Cattedrale. Santa María de la Sede è una delle più grandi cattedrali gotiche d’Europa. All’esterno è un trionfo di pinnacoli, tra cui spunta la Giralda, il campanile staccato dalla struttura della chiesa, alto 105 metri e costruito basandosi sull’aspetto del minareto della moschea Kutubia di Marrakech. All’interno della struttura, confinante con l’Archivio delle Indie, tra i trionfi gotici e le immagini sacre, c’è spazio per una disputa su Cristoforo Colombo di cui si contende non solo il luogo di nascita ma anche quello di sepoltura. Quando morì nel 1506, l’esploratore fu sepolto a Valladolid, ma per rispettarne le ultime volontà nel 1537 fu portato sull’isola di Hispaniola. Quando la colonia nel 1795 venne ceduta alla Francia, sembra che i resti del navigatore siano stati spostati a Cuba, dove sarebbero rimasti fino all’inizio della guerra ispano-americana del 1898, per tornare infine in Spagna. Siviglia si contende le spoglie dell’ammiraglio con San Salvador.
Al di là delle dispute colombine, vedere dall’alto la Catedral mentre si cena al tramonto, senza il rumore della città ma col sottofondo dello scalpitio delle carrozze turistiche, ristora anche l’anima.
Lavorare e vivere in ostello
In ostello ci si nutre di persone e delle loro storie. Questa penso sia la scoperta più importante che mi ha lasciato quell’esperienza di tre mesi. Fino a qualche tempo fa, l’ostello era semplicemente ritenuto una tipologia d’alloggio economico. Un’impostazione che – salvo moderne eccezioni distorte – rimane saldamente in piedi, ma che da una ventina d’anni si è evoluta. Non è più solamente un albergo all’ultima fascia di prezzo, è un vero e proprio modo di viaggiare.
La curiosità ti fa vivere l’ostello, un posto dove hai la possibilità di scoprire gli altri. Viverlo con la possibilità di risiedere per un periodo di tempo prolungato, è stato una fonte di arricchimento umano. È sbalorditivo accorgersi del progressivo solidificarsi dei rapporti: basta che una persona pernotti per un periodo appena superiore al semplice weekend per entrarci in confidenza. La gestione dei rapporti è un meccanismo che si impara presto, soprattutto in una cucina dove mangiano sempre persone diverse.
Non arrivo a scomodare termini come fiducia o responsabilità, ma gli ospiti tendono a fidarsi di quello che gli viene consigliato da chi lavora in ostello, che sia il posto per mangiare, da visitare o dove andare a divertirsi. Dall’altro lato del letto a castello, si gode di una percezione differente dell’ostello. Si ha sempre la possibilità di far succedere qualcosa, per sé e per le persone sulle quali si ha la possibilità di incidere in maniera attiva nell’esperienza del viaggio.
L’adattamento è la base della vita in un luogo come l’ostello, nonostante non proprio tutti lo vivano alla leggera. In un posto che non è più concepito per essere spartano – ma nemmeno full optional – si incontrano le esigenze più disparate, a volte anche eccessive di chi – forse per colpa di Booking e della politica delle stelline – vive l’ostello come un servizio e non come esperienza. Fortunatamente, ci si abitua anche a questo. Una lunga permanenza insegna a vivere l’ostello per quello che è: un luogo fatto di persone.
Ci si abitua a tutto. Alle cucine più esotiche, per non dire blasfeme, di chi si ostina a mettere il formaggio sul pesce o il ketchup sulla pasta. Ad orari differenti, come la mattina che a Siviglia ho scoperto essere “madrugada” e non sinonimo di “check-out”. Alla condivisione, ecco non sempre idilliaca: se ci si abitua a dormire nella camera condivisa da tutto il personale, si può dormire anche sotto le bombe. Al di là di qualche fisiologico inconveniente, posso affermare che vivere dall’altro lato del letto a castello sia stata una delle migliori esperienze di accrescimento che abbia mai fatto. Mi sono goduto il soggiorno in una delle città più suggestive d’Europa, scoprendo fino in fondo i suoi posti e la sua gente.
“Sevilla tiene un color especial” cantano i Los del Rio, il duo spagnolo che ha regalato al mondo la canzone Macarena. Ma anche l’arredamento del Sevilla Kitsch Hostel Art, alla fine devo ammetterlo, ha il suo perché.