Glenridding (Cambria) luglio 2016. Per salire sull’Helvellyn ho pianificato la gita venerdì mattina; David mi aveva detto che ne sarebbe valsa la pena, c’è una cresta finale scoscesa e panoramica, su cui arrampicarsi fino in cima, a tratti con le mani.
Ho guardato le previsioni del tempo su BBC Weather e ho verificato come al solito i tempi e studiato il percorso su internet: i dislivelli, le distanze e la densità delle linee di quota. Quando si va in giro da soli in montagna, o in posti sperduti, questi sono tutti elementi fondamentali da non sottovalutare mai in generale, ma assumono un’importanza vitale in solitaria.
Ero allenato, ma la testa era rannuvolata dalle cattive notizie, dalle ferite inferte a questa vecchia Europa che non sarà mai unita. La strage di Nizza, il sacerdote sgozzato a Ruen, la sparatoria al supermercato in Baviera e infine il Brexit e le sue conseguenze economiche, per me soprattutto.
Mentre preparavo lo zaino e ho ricevuto una telefonata da David che mi chiedeva se avessi sentito cosa fosse successo in Turchia. Guardai su internet e la notizia del tentato colpo di stato mi fece passare in un minuto tutto l’entusiasmo che mi aveva riempito l’attesa della gita.
Mandai un messaggio a Tony che lavora in Turchia, per sapere se stesse bene; fortunatamente era in vacanza in Spagna. Stavo per andare a letto e mi sono venuti in mente i miei amici turchi di Leeds. Mando “what’s up”; Nadir è a Leeds, Ali invece è in vacanza in Turchia. Mi risponde che sta bene, che è chiuso in un villaggio turistico. Sta cercando di capire anche lui cosa stia succedendo. Vado a letto.
Sabato mattina non me la caccio più di tanto per svegliarmi. Abbondante colazione e salgo in macchina; gironzolo per un’ora e mezza per campagne deserte, le strade sono ancora umide per le piogge di ieri.
Le nuvole del Brexit si diradano al parcheggio di Glenridding, quando aprendo il baule dell’auto per prendere zaino, mi rendo conto che non ci sono gli scarponcini. Erano sull’uscio di casa e li ho dimenticati: mi aspetta una salita, rocce comprese, in scarpe da tennis. Scarpe da tennis, non per modo di dire, proprio scarpe da tennis: quelle con la suola appena abbozzata per poter scivolare bene sulla terra battuta. Mi incammino, nessuno sul sentiero, salgo e fa caldo.
Le previsioni erano corrette, fa fresco, ma c’è un sole abbagliante. Sudo e bevo senza fermarmi, mi si apre il primo panorama davanti agli occhi: paesaggio alpino, cascate e niente alberi. Salgo ancora, fa più freddo e la scena è rubata da un laghetto come tanti ne ho visti sulle mie Alpi. E’ assurdo come il paesaggio sia così simile a quello appoggiato sulla catena montuosa più importante d’Europa e che si trova a millecinquecento chilometri più a Sud. È come provare una strana sensazione di ubiquità.
Sopra pensiero non mi rendo conto di superare decine di persone, non le guardo nemmeno in faccia, mi fermo a bere e mi guardo intorno. Non ho fame perché mi nutro di sole, di aria fresca e limpida che vorrei regalare un po’ a tutta questa Europa immersa nella puzza e nella nebbia da lei stessa creata; un’Europa perennemente alla ricerca di se stessa.
Le rocce sono davanti a me, non posso e non devo pensare ad altro se non a capire come salire senza scivolare con queste scarpe da tennista della domenica e dalla suola che merita un’espulsione dal CAI e la radiazione da tutte le escursioni del mondo.
Gli ultimi venti minuti li faccio senza quasi mai staccare mani e piedi dalla roccia. C’è silenzio dentro e fuori di me, talmente tanto silenzio che non mi rendo conto di percorrere l’ultimo tratto, con uno strapiombo a destra e uno a sinistra, senza la minima sosta.
Esco in cima. Un grande pianoro con rocce rotte; mi faccio scattare una foto, mi copro e mi siedo insieme ad altre persone appena arrivate dal versante opposto, siamo dietro ad un muretto fatto apposta per ripararsi dal vento.
Il mio pasto consiste in una tavoletta di cm 2x4x8, comprata alla Coop di Baildon. Ne assaggio un morso ed è buona; leggo gli ingredienti… sicuramente contiene Avena, mi fermo però al terzo ingrediente, perché poi inizia una lista di sostanze sinistre e il cui nome non è altro che una serie di caratteri alfanumerici.
Scendo dal versante opposto. Il vento in cima è rinforzato. Sono più di tre ore che cammino, sono stanco e sudato.
Mi fermo su un prato a mezz’ora dall’arrivo; mi sdraio e mi addormento per un quarto d’ora. Mi sveglio e guardando il lago di fronte a me, quelle case bianche e gli alberi, mi ritengo fortunato.
Arrivo al parcheggio, mi cambio, ma prima di ripartire entro in un pub, prendo del sidro e mi siedo sulla panca all’esterno per godermi ancora un po’ di sole.
Non penso più a nulla, da lontano guardo la cima del Helvellyn.
Salgo in auto e l’insofferenza mi assale. Sono in Cambria e proprio qui ho fatto la mia prima trasferta di lavoro quando ero un giovane ingegnere in Agip.
Era una source-inspection presso un fornitore di Ulverston che produceva connettori elettrici sottomarini a un’ora da qui. Non mi interessa tornare in quel posto, ma piuttosto rivedere quella costa. Sono passati decenni e mi ricordo la sera prima di rientrare in albergo: ero rimasto colpito dalle incredibili dimensioni che hanno le basse maree da queste parti. Devo andare al mare.
Salgo in auto e, anziché tornare a casa, a velocità da ritiro patente sulla M6 mi precipito verso Lancaster senza usare nemmeno il navigatore, guardo il sole e vado a Ovest… li c’è il mare.
Morecambe mi sembra una buona meta. Finisco la corsa su un parcheggio del lungomare, scendo e cammino velocemente verso il molo; c’è la bassa marea e ci sono anche le barche in secca come me le ricordavo ventiquattro anni fa. Ci sono anche tanti aquiloni sulla spiaggia infinita. Mi compro del pesce e delle verdure da cucinarmi stasera.
Mi separano un’ora e mezza di macchina da casa.
Il sole non ne vuole sapere di nascondersi, è luglio ed è ancora alto. Giornate così limpide qui sono un regalo, così decido di non percorrere neanche un pezzo di autostrada. Imbocco la A65; è un su e giù per campagne e colline, muretti a secco, pecore e mucche. Sembra davvero uno di quei sabati estivi descritti chissà quante volte da tanti autori del novecento.
Vado piano, forse troppo, perché mi superano in due o tre occasioni alcune auto; gli inglesi lo fanno raramente, è tutto dire. Alla radio passano canzoni degli Smiths, di James Taylor e Santana, alcune le canticchio sottovoce. Le cattive notizie sono lontane. Cottage bianchi e grigi mi sfilano di fianco tra i paesini che interrompono, come i punti in una frase, un nastro di prati e colline verdi.
Sono a casa. Gli scarponcini sono nell’ingresso.
Testo e foto di Luca Lastella