Dopo tre settimane in Ladakh, tra cime himalayane, dodici giorni di cammino e innumerevoli metri di dislivello percorsi, io e la mia compagna di viaggio Claudia una mattina di fine settembre all’alba abbiamo salutato il piccolo aeroporto militare di Leh e abbiamo sorvolato le cime ghiacciate per raggiungere Delhi.
Un motivo fondamentale ci aveva costretto a fare uno scalo di qualche giorno nella capitale indiana: i pochi aerei che collegano il Ladakh al resto del subcontinente partono solo al mattino e solo in condizioni metereologiche più che perfette. Se l’aereo da Leh non fosse partito avremmo perso anche quello intercontinentale per Milano.
La nostra “ansia da ritorno” ci aveva preso in pieno: nei giorni precedenti alla nostra partenza un’alluvione di inizio autunno aveva paralizzato la circolazione, sia aerea che su ruote e aveva tolto l’elettricità a quel piccolo centro che è Leh. Il nostro volo per fortuna è stato rimandato di un solo giorno e la mattina del 27 settembre si prefigurava un cielo terso nell’alba lattiginosa.
Delhi… descrivere questa metropoli sterminata, il cui ultimo censimento del 2017 riporta una popolazione di 28 milioni di abitanti è quasi impossibile. Dalla confluenza di Old Delhi – il mercato di Chandni Chowk, bazar che si aprono su vicoli che come in un labirinto portano a minuscoli cavedi dai cui balconi si affacciano volti curiosi di bimbi – e New Delhi – architettura neocoloniale con viali alberati, banche e residenze di lusso dei funzionari amministrativi, un tempo coloni inglesi – si è formata una città caotica, inquinatissima, in cui muoversi finisce sempre in uno zigzagare, afferrandosi disperati a tuk tuk in cui contrattare fino all’ultima rupia per farsi portare al monumento o templio successivo.
La mia compagna di viaggio mi abbandona all’alba del giorno seguente al nostro arrivo per il suo aereo e mi sveglio sola in una città sterminata che per ora osservo dalla finestra del mio albergo. Un’intera giornata per affrontare il demone del rientro, tirare i conti con quello che ho imparato e ciò che mi aspetta. Sdraiata nella mia camera d’albergo rifletto su quello che può attendermi: l’addio al subcontinente indiano, una riflessione in solitaria. Immagino sempre che i vari momenti del viaggio siano coordinati dai diversi organi del nostro corpo che ne controllano e monitorano l’attività. La partenza è governata dal ritmico scandire del cuore, la tachicardia e la paura, così come l’aspettativa di quello che verrà; il viaggio vero e proprio cammina sempre spedito sulle gambe, può incespicare o correre tanto da sembrare che sia volato, procedere o indietreggiare ma sempre sulle ali del movimento; il rientro è predominio del cervello. Il cuore smette di pulsare agitato, le gambe riposano – finalmente. Quello che è stato dev’essere analizzato.
Uscita dall’albergo contratto con un taxista sulla tariffa per il giorno intero, non me la sento di affrontare sola e a piedi l’immensa metropoli, voglio concedermi il lusso di comportarmi da turista. Il mio “autista” è un nepalese che nei mesi invernali si trasferisce a Delhi e noleggia l’auto con cui porta in giro i turisti. Quando deve tornare a casa dalla famiglia si organizza per effettuare trasporti da e per Kathmandu. Sulla natura di quello che trasporta non vuole rivelarmi niente ma sorride di traverso e mi guarda nello specchietto. Il suo nome è Dharma e ogni volta che mi lascia fuori da un templio, parcheggia il suo taxi e raggiunge gli altri autisti per giocare e chiacchierare all’ombra degli alberi.
All’interno dei templi più importanti della città è proibito portare qualsiasi oggetto, soprattutto il telefono per cui mi invita a lasciare la borsa in macchina. Con un po’ di apprensione la prima volta mi porto il portafoglio dietro ma i controlli sono così minuziosi che quasi non mi fanno passare per i ninnoli che ho dentro il portamonete; dalla seconda volta lascio tutto in macchina – eccetto il passaporto – e mi affido a Dharma e alla sua attenta custodia dei miei beni.
I templi dai nomi irripetibili come Swaminarayan Akshardham possono essere fotografati solo dall’esterno e da lontano: all’interno enormi decorazioni intagliate, parchi, ampissimi chiostri e spettacoli di luci e acqua che ricordano più Gardaland che non un luogo di culto.
All’interno una folla infinita di fedeli e famiglie che bivaccano tranquillamente all’ombra delle statue delle migliaia di divinità dalle innumerevoli braccia e smorfie ora terrorizzanti, ora dolci e accomodanti. Come rimpiango il mio telefono per non poter immortalare il contrasto tra i volti dei neonati in braccia alle madri, avvolte nei loro saree e le misteriose, ammiccanti statue. Bambini e ragazzi mi fissano sempre curiosi, per quanto cerchi di mimetizzarmi nei miei salwar e churidar: pantaloni larghi e una casacca abbinati.
Visito Barla House dove il Mahatma Gandhi è stato assassinato il 30 gennaio 1948. Mi reco al museo di Gandhi, mentre leggo affascinata la vita del “fachiro seminudo” – come lo definiva Winston Churchill – che ha portato all’indipendenza il suo paese. Di fianco alla sua tomba a Raj Ghat mi riposo all’ombra degli alberi in un parco insospettabilmente piacevole e compro dei samosa da dividere con Dharma.
Al tramonto sono al Lodhi Garden, un parco immerso nelle rovine della dinastia Lodi, che governò l’area settentrionale dell’India e dell’attuale Pakistan. Accompagno le famiglie che salutano il sole e comitive scolaresche. Dharma vuole riportarmi subito all’albergo, non si fida più a lasciarmi girare da sola quando il sole cala ma allo stesso tempo non può lasciare abbandonata la sua auto: la sua croce e il suo gioiello. Riesco a convincerlo a fermarsi a lato di un altro parco: all’ombra di tombe e mausolei secolari le famiglie giocano a racchettoni, alla luce di scarsi lampioni.
Alle sette sono in camera a farmi una doccia e alle sette e mezza sono pronta per cenare. Vado a sedermi con il mio diario nella fatiscente terrazza che affaccia su altri alberghi di mediocre qualità per turisti non troppo esigenti. In un palazzo a lato del mio è montata una struttura, agganciata alla meglio dal tetto: un uomo in corda doppia colora l’interno di un cerchio disegnato a mano sulla facciata, un nuovo albergo che nasce. Di fronte a me c’è una palazzina ancora in costruzione con le finestre aperte, senza tende o vetri a celare i suoi abitanti alla vista di un osservatore. Mostrano agli osservatori la vita domestica, intima che si svolge al loro interno. Provo a immortalare la loro essenza notturna con un poco tecnologico telefonino.
Nel mio diario annoto: “il rientro è la parte più difficile del viaggio perché il ricordo delle esperienze sfuma più rapidamente di quanto potessi pensare. L’immaginario combatte perché niente svanisca nell’oblio ma ecco che già qualcosa sfugge e scompare. Sono io ma non sono più esattamente la stessa di quando sono partita.”
Il mio aereo parte a mezzanotte.
Mi sbagliavo sul rientro: non sarà mai un addio ma sempre un arrivederci nelle immagini vivide del ricordo che resta.