Parto alla volta della Grande Mela con la mia famiglia e aspettative non troppo alte. Io prediligo le mete naturalistiche: ho un animo romantico, mi piace perdermi nei paesaggi sconfinati e sentirmi piccola di fronte alla meraviglia e all’immensità della natura. New York, ahimè, promette tutt’altro: grattacieli imponenti, strade a quattro corsie, traffico, caos.
Per molte cose, mi rendo conto, è proprio come ce la si aspetta: colorata, frenetica, giovane, piena di vita, culturalmente molto vivace e sì, la gente ferma davvero i tipici taxi gialli sventolando le braccia per aria. New York però è anche l’opposto di quello che ci si immagina, non è fatta di soli grattacieli: è vecchia, trascurata e sporca.
Per questo è una città difficile da raccontare: è tutto e il contrario di tutto. Eppure, in mezzo alla confusione, ai contrasti, in mezzo ad un mondo di contraddizioni fuse insieme, qualcosa commuove il mio inguaribile cuore romantico: il cielo.
Il cielo newyorkese è diverso da qualsiasi altro cielo io abbia mai visto. Che poi, alla fine, il cielo è sempre quello. È il punto di vista che cambia. Il cielo di New York, contro ogni aspettativa, rievoca in me le stesse sensazioni che è in grado di regalarmi uno sconfinato paesaggio naturale.
Con la mia famiglia alloggio a Manhattan, il quartiere pulsante della città, vicino a Times Square. L’hotel è un palazzo di trentasei piani. Bassino, rispetto agli altri grattacieli, ma a me pare enorme. Già da qui, il cielo appare diverso: guardando fuori dalla finestra, sembra sia sempre nuvoloso. Quando usciamo, puntualmente, ci rendiamo conto che il cielo è sereno e che dalla finestra della nostra stanza sembra nuvoloso a causa del palazzo di fronte che oscura la luce del sole.
Camminando per le vie del centro guardo in alto, cerco di scorgere sprazzi di cielo in mezzo a questi blocchi di cemento che ci sovrastano. E lui c’è, c’è sempre. Solo a piccole porzioni che non lasciano spazio alle nuvole di esprimersi.
Mi sento tanto piccola, come quel giorno a Eastbourne, in Inghilterra, quando sulla spiaggia alzai gli occhi al cielo e ammirai stupefatta le bianche scogliere ergersi sopra la mia testa. Ecco a New York provo le stesse emozioni, con la differenza che i grattacieli non sono opera della natura. Mai avrei pensato di provare un giorno la stessa sensazione di fronte a qualcosa di artificiale, qualcosa di costruito dall’uomo.
Di tanto in tanto, le strisce delle bandiere statunitensi colorano le strisce di cielo fra i grattacieli. È ancora tutto più suggestivo di sera, quando alzo gli occhi al cielo per cercare le stelle, ma queste non ci sono: le stelle di New York sono le luci dei grattacieli. Persino nelle zone meno centrali della città, dove gli edifici sono più bassi, se si guarda in alto, ci sono sempre, da qualche parte in lontananza, a dare la direzione, le finestre illuminate di questi maestosi palazzi. Ma nei viaggi, come nella vita, per cogliere la magia bisogna cambiare prospettiva.
Un tardo pomeriggio, camminando lungo la Fifth Avenue, mentre discutiamosul da farsi, ci troviamo di fronte all’Empire State Building, uno dei più alti e famosi grattacieli di New York.
Decidiamo di salire per goderci la vista del tramonto dall’alto. Entrati nell’edificio, dopo i controlli di routine per la sicurezza e un paio di ascensori, arriviamo all’ottantaseiesimo piano!
C’è molto vento e fa freddo. La folla si accalca per riuscire a fotografare il panorama. Ci facciamo largo, a fatica, ed ecco che finalmente possiamo contemplare il panorama. I grattacieli, che dalla strada apparivano immensi, improvvisamente sono diventati piccoli. Il sole, con le sue tonalità pastello, colora il cielo che abbraccia la città, incorniciando a meraviglia ciò che l’uomo ha costruito e donandoci un incredibile spettacolo.
Man mano che il sole cala e il buio avvolge la città, i grattacieli vengono sovrastati da un’oscurità mai conosciuta. Ed ecco che quelle che dal basso parevano stelle, ora le contemplo dall’alto. Milioni di piccole luci che, a poco a poco, si accendono e contrastano questo fitto buio. Mi domano come l’uomo sia riuscito a creare tutto ciò.
Restiamo quassù un’ora e mezza, per cercare di imprimere nella nostra mente queste rare immagini, perché – come dice sempre mia madre – “le migliori fotografie le scattano i nostri occhi”. Poi, con i cuori pieni di stupore, torniamo al pian terreno. I giorni successivi continuiamo a vedere il cielo da dove gli esseri umani sono soliti guardarlo.
Una delle ultime sere ci allontaniamo da Manhattan per ammirare il suo maestoso skyline da un’altra prospettiva: quella del Brooklyn Bridge Park. I grattacieli, dominati dalla Freedom Tower, costruita vicino al luogo dove c’erano le Torri Gemelle, formano un’imponente montagna di luci che illumina le acque dell’East River; mentre sulla destra il ponte di Brooklyn lascia intravedere l’altra zona di Manhattan illuminata dall’Empire State Building e da tutti gli altri grattacieli, tra i quali il caratteristico palazzo Chrysler.
Questa volta è l’opera dell’uomo a sovrastare la natura.
Passeggiamo lungo il lato del parco che costeggia il fiume sedendoci sulle panchine a riposare e ad osservare l’affascinante scenario.
Ritornando verso la fermata della metropolitana per rientrare in hotel, lasciamo il profilo dei grattacieli illuminati alle nostre spalle. Mio padre, mente si ferma per osservare ancora per qualche secondo lo spettacolo di luci dietro di sé, dice a mia madre: “Guarda, guarda che bello. Non lo rivedremo più”. Poi si mette di nuovo a camminare nella direzione opposta, di fianco a lei.
E ce ne andiamo, avvolti dalla malinconia delle parole di uomo di sessantacinque anni che spera di ritornare a rivedere un cielo così.
Testo e foto: Elisa Tomezzoli