“La natura selvaggia contiene delle risposte a domande che l’uomo non ha imparato a porre”.
La storia del rapporto tra essere umano e natura è una rincorsa di domande senza risposta o, come diceva la scrittrice Nancy Newhall, di domande mai poste. Esistono meccanismi, scelte e cambiamenti nel mondo “fuori di noi” (che poi, sarà davvero fuori?) che sfuggono completamente alla logica interiore fondata sulla ragione.
A guardare da vicino il lento scorrere del ciclo naturale si rischia di cadere in un nugolo di perché dal sapore vagamente infantile, che non sembra lasciare vie d’uscita al di fuori del terreno molle di un misticismo senza logica.
Oggi vorrei parlare proprio di uno di questi fenomeni, incomprensibilmente mistici, che nella logica illogica della natura prende le forme del fatto assodato. Ne vorrei parlare essenzialmente per due ragioni: da un lato, perché riscoprire la bellezza vagamente nonsense della natura ci può aiutare a scrostare gli occhi dall’esigenza spasmodica di efficienza razionale, spingendoci a tornare nei luoghi ancestrali della sorpresa e della scoperta irrazionale; dall’altro, perché in questo fenomeno ci leggo la risposta ad un paio di quelle domande che non abbiamo ancora imparato a porre, ma di cui sentiamo, o almeno sento, l’urgenza.
Ecco, oggi vorrei parlare degli gnu del Serengeti e della loro marcia kamikaze di tremila chilometri per cercare un pascolo in cui stare.
Si tratta della migrazione animale più grande e pericolosa sulla faccia del pianeta. Più di un milione di esemplari si danno appuntamento al termine della stagione delle piogge tra i pascoli ancora verdi del Parco Serengeti in Tanzania, dietro al richiamo di un istinto congiunto, per dirigersi verso nord in un corteo sconfinato, all’inseguimento delle nuvole gonfie d’acqua del Parco Maasai Mara in Kenya.
Nel percorso, che ciclicamente inizia a marzo e termina ad agosto, per ricominciare in senso inverso ad ottobre, gli animali sono costretti dalla logica del branco ad attraversare fiumi e praterie aperte, così divenendo facile preda di coccodrilli e leoni.
In particolare, l’attraversamento del fiume Mara rappresenta una vera e propria ecatombe: uno studio coordinato dall’Università di Yale (pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences”), ha calcolato che sono circa diecimila gli esemplari che non riescono a raggiungere la sponda opposta, vittime dei predatori o della corrente furibonda.
Un evento di questa portata e tragicità, non può che sollevare domande e sconcerto. Davvero il più grande branco in perenne migrazione del pianeta non è riuscito a sviluppare una qualsivoglia strategia di sopravvivenza più efficiente nel corso dei secoli?
Cosa spinge gli gnu a seguire con rassegnata costanza un destino di sofferenza così chiaro? È pura inerzia biologica o c’è dell’altro a dare linfa a questa ciclica mattanza?
Gli studiosi sembrano dare una risposta: “il tessuto molle del corpo degli gnu, che si decompone nel corso di svariate settimane dopo che gli animali sono morti, rappresenta fino alla metà delle fonti di cibo dei pesci di Mara”. Quindi senza il loro sacrificio (in)consapevole, non (r)esisterebbe la rigogliosa biodiversità dell’area.
Mi chiedo: di questo gli gnu sono coscienti?
A tal proposito viene alla mente una interessante pagina dello scrittore e pedagogo Fernando Savater, tratta dal libello Etica per un figlio, in cui l’autore spagnolo mette a confronto il coraggio omerico di Ettore, consapevole del proprio destino infausto, di fronte ad Achille, e quello meccanico delle formiche soldato che escono dal formicaio quando attaccato mentre le operaie ne chiudono gli ingressi alle spalle.
Secondo Savater, solo il primo è vero coraggio in quanto nato da una scelta ponderata, mentre il secondo rappresenta la semplice risposta biologica a un input già scritto nel DNA. In buona sostanza, Ettore avrebbe avuto la facoltà di sottrarsi allo scontro e pertanto ha dimostrato un valore consapevole, le formiche soldato non godrebbero invece dello stesso privilegio e quindi non sarebbero davvero “coraggiose” ma banalmente ingabbiate in un processo ancestrale.
A me piace pensare che non sia realmente così, che in realtà gli gnu del Serengeti hanno perfetta coscienza dei rischi e dei benefici (non solo per loro) che deriverebbero dall’attraversamento del fiume Mara e che scelgono con una sorta di spirito messianico di abbracciare entrambi per il bene comune.
Nella mia visione, peraltro non totalmente ascientifica (vd. Barbara King, antropologa e autrice de Il senso del lutto negli animali), gli gnu si fanno ambasciatori di un benessere che travalica i confini della specie per divenire humus condiviso nell’intero ciclo dell’esistenza. In definitiva, esprimono una forma atavica e incomprensibile di coraggio collettivo.
Non so se sia realmente così o se, più semplicemente, il calvario programmato sia un frammento di comando scritto nel dna della specie e, quindi, non ci sia biologicamente spazio per la volontà del singolo esemplare di sottrarsene.
In entrambi i casi trovo però che da questo imponente evento naturale possano trarsene almeno due risposte a domande non poste, o, quantomeno, dimenticate dall’esemplare umano.
La prima è che la ricerca competitiva di un benessere egoistico non massimizza il risultato in termini di benessere collettivo, anzi. Se gli gnu un anno pensassero di fare la strada lunga e superare il fiume passando per le tranquille sorgenti, probabilmente l’intera biodiversità circostante ne verrebbe compromessa. Gli gnu, consapevolmente o meno poco importa, antepongono il bene collettivo al proprio bisogno di benessere e sicurezza.
La seconda è che non esiste evento più naturale e biologicamente connesso con l’esistenza del muoversi al di fuori dei confini, non tanto politici quanto razionali.
Gli gnu ci insegnano che la migrazione risponde a un bisogno di ricerca ancestrale, a tratti illogica, che spinge fino al massimo pericolo. Tentare di convogliare questo impulso nel solco di un bilancio costi/benefici rischia di sminuirne il senso e disperderne il valore profondamente istintuale.
Questo vale per tutti gli animali, essere umano compreso.
Osservare la natura per scoprire risposte a domande sconosciute potrebbe essere l’unica strada per tornare ad apprezzare il senso di un benessere condiviso. Gnu docet.