Ci sono diversi modi per raggiungere una meta. Si può prendere un aereo, il mezzo ideale per unire due luoghi lontani e dal cui finestrino si possono osservare mappe geografiche che sembrano appartenere più a presepi che a una terra vivente.
Si può prendere il treno, perfetto per guardare i panorami che cambiano chilometro dopo chilometro, mentre ci si abbandona ai sogni e alle fantasie. Si viaggia in auto, il mezzo di trasporto di indipendenza per antonomasia. Ma anche quello che stanca di più, costretti a mantenere la concentrazione sulla strada.
Oppure, quando la meta è un luogo di mare, si può prendere una nave. E io, per raggiungere Istanbul, ho preso una nave.
Avrei potuto arrivarci in tanti altri modi, ma questo resta il mio preferito. È un viaggio lento; si scivola tra le onde e si respirano le brezze marine. Trovo confortante il costante sciabordio, capace di farsi sentire anche in mezzo al rumore delle attività di mille passeggeri, e mi piacciono gli odori salmastri che dalla sua schiuma sembrano lievitare. Impareggiabili compagni di viaggio.
Altrettanto affascinante è arrivare in un porto all’alba e vedere il giorno che nasce freneticamente dall’alto di uno dei ponti di queste mastodontiche navi da crociera. Mi sento uno spettatore privilegiato, comodamente affacciato ad un balcone, davanti allo spettacolo brulicante di un risveglio.
In crociera
La giornata di un crocierista tipo è fatta di aspettative e relax, scanditi in orari stabiliti che non devi percepire come fastidiosa coercizione e ogni tappa va vissuta con un animo avventuriero. Ci si alza, colazione e via, alla scoperta di un luogo con il piglio deciso di chi ha ancora fame di conoscenza, di paesaggi e architetture nuove, di storia, di colori, profumi e sapori mai assaggiati prima.
Certo, poche ore non ti permettono di conoscere una meta. Se poi si tratta di Istanbul poche ore bastano solo per visitare qualche quartiere. Una settimana non basterebbe per visitarla per bene, e forse, neanche una vita intera.
La nave non è ormeggiata lontano dal ponte di Galata, cosi decido di andare a piedi verso il centro. Poche persone in giro, ma un’umanità profonda e riconoscibile. Cammino lungo la strada con la mia reflex al collo e di dettagli da fotografare ne trovo tanti. Molti negozi sono ancora chiusi e alcuni commercianti stanno per aprire le loro attività. Mi piace guardarli e ritrarli mentre sistemano le loro mercanzie.
Mi sembra l’immagine rappresentativa di un nuovo giorno che inizia, di una nuova energia, di speranza. Per una deformazione professionale non mi piace tornare a casa solo con scatti banali, la statua più famosa o l’edificio simbolo, ma con immagini che mi fanno ricordare perché quel determinato luogo mi ha colpito e a volte basta mettere a fuoco un piccolo particolare. Le mie foto devono raccontare qualcosa di me, non devono testimoniare dove sei stato, ma cosa sei stato durante il viaggio.
E poi una città non è fatta solo di simboli arcinoti, ma di innumerevoli peculiarità. E Istanbul si presta a questo gioco con estrema facilità. Ovunque ti giri i colori, le scritte, i negozi, la gente, gli stili architettonici, gli arredi urbani, i vissuti, si intrecciano e tessono una storia multietnica.
Arrivata in prossimità del ponte, mi accorgo che la città ormai è sveglia. La frenesia di chi deve andare a lavorare è palpabile. Ogni mondo è paese, e Istanbul in questo senso non è diversa da Milano.
Istanbul: la città in poche ore
Sul ponte ci sono dei pescatori e sotto una moltitudine di ristorantini e localini che si affacciano sul Bosforo e sulle banchine affollate di gente in attesa di prendere il traghetto. E qui Istanbul non è diversa da Venezia con i suoi vaporetti.
Cammino tra i pescatori, cerco di fare quante più foto possibili senza essere notata. Amo la naturalezza e non sopporto le foto in posa o troppo studiate. Un pescatore distratto da una macchina fotografica non è concentrato sui suoi pesci e questo modifica l’intensità delle sue emozioni, di conseguenza, anche la mia foto.
Percorro il ponte che unisce la parte nord, che ha retaggi genovesi, con quella sud, su cui sorgeva l’antica Costantinopoli.
Passo davanti a un mercato ma è ancora poco movimentato. Proseguo attraversando piccole vie popolate da vecchi e bellissimi negozietti e arrivata alla Moschea Blu, mi fermo e mi guardo attorno. Orde di turisti ormai affollavano l’area. Ma tra le tante code in fila, una mi colpisce e mi attira.
Quella per la Cisterna Basilica, un deposito sotterraneo costruito da Giustiniano intorno al 532 d.C per raccogliere l’acqua. E decido di entrarci. Non l’avevo mai vista, nemmeno in foto. E’ stato come entrare in un’altra dimensione. E chi l’avrebbe mai detto che sotto Istanbul si celasse un’opera ingegneristica così bella?
Tra le centinaia di colonne illuminate (336 per la precisione, divise in 12 file da 28 colonne ciascuna, per una lunghezza complessiva di 140 metri e una larghezza di 70) riflesse nell’acqua, mi accorgo subito di aver fatto un errore enorme: non avevo con me il treppiede. Per camminare leggera lo avevo lasciato in nave. Senza il treppiede, là sotto, scattare foto decenti è impossibile.
Ci ho provato, appoggiando la macchina ovunque sulla passerella o sul corrimano, ma essendo un camminamento in sospensione sull’acqua, era soggetto alle vibrazioni di chiunque passasse. Per superare la delusione, mi sono solennemente promessa di ritornare a Istanbul, anche solo per fotografarle.
Delusa e demoralizzata, dopo una mezz’ora decido di uscire, risalgo il superficie e mi butto a cercare qualcosa da mangiare. Trovo un piccolo localino di kebab e ne prendo uno. Lo assaporo, mi riposo quel tanto che basta e mi rimetto in marcia.
Torno al mercato, adesso è pieno di gente. Faccio qualche scatto a un gruppo di anziani che gioca a backgammon, ma ormai è tempo di tornare verso la nave, e sempre a piedi mi rimetto in marcia. Lungo la strada, piccoli angoli di Istanbul si donano gratuitamente in tutta la sua bellezza.
Ripercorro il ponte, passaggio obbligato per tornare verso il porto e verso la parte nord della città. Questa volta passo al piano di sotto, per fotografare i traghetti in partenza per attraversare il Bosforo.
Non vedo i pescatori, che sono sopra al piano superiore della strada, ma le decine e decine di fili da pesca che disegnano, quasi impercettibilmente, il panorama.
Arrivo al porto e ho ancora un po’ di tempo e cosi decido di andare a vedere Palazzo Dolmabahce, che è qualche centinaio di metri oltre la nave. Il tempo a disposizione è troppo poco per una visita e mi limiti ad ammirarne gli esterni. Risalita sulla nave, apro lo zaino per sistemare gli oggetti raccolti nella giornata: un giornale locale, gli opuscoli turistici e qualche snack da assaggiare.
Un viaggio non è un viaggio se non si porta a casa qualche souvenir. Perché i ricordi han bisogno di essere stimolati. E niente è più efficace di una scatola da aprire per trovarci dentro tutto quello che hai vissuto.
Il suono della sirena, tre fischi lunghi, sono il segnale che la nave sta lasciando il porto, il saluto alla città. Mi piace questa tradizione, è come se la nave, i suoi passeggeri e tutto il personale di bordo ringrazi la città che li ha ospitati per una giornata.
Rimane il tempo per un’ultima foto. Dall’alto dell’undicesimo ponte scorgo un campetto da basket, ricavato tra gli edifici portuali. Anche lui fa parte di Istanbul e non potevo non fotografarlo. Perché gli scorci che più ti rimangono dentro, a volte, sono nei luoghi meno suggestivi, o per lo meno, in quelli più impensabili.
Testo e foto di Francesca Ferrario