Spesso chi si occupa di letteratura si sente porre la domanda “a che serve?”. C’è da sapere che è ovviamente un quesito che ci si pone in maniera bilaterale, se lo chiede chi la fa, e spesso l’insegna, e pure chi la studia o semplicemente la legge. Parlare del valore della letteratura apre porte infinite. Si deve scegliere, almeno, da quale partire o su quale, di volta in volta, dischiudere. Letteratura è soprattutto immagini, è fare il procedimento opposto rispetto alla maggior parte delle azioni umane, è trasportare nell’astratto ciò che vi è di concreto. Creare qualcosa che avrà vita solo nella mente di chi legge. Ma perché? Io credo che due siano i motivi principali. Creare un senso di comunanza, di intima condivisione di immagini mentali potentemente legate alla realtà materiale, tra chi scrive e chi legge e creare un senso di umanità condivisa. Ma come si può fare?
Un modo è quello di usare immagini concrete ed elementari, semplici, facilmente condivisibili perché facilmente e con alta probabilità vissute o conosciute dalla maggior parte delle persone, usate per descrivere altro, qualcosa di più sfumato, profondamente personale e individuale. Si parte descrivendo qualcosa che si manifesti come subito familiare, vicino a chi legge, dunque agevolmente accogliibile, accettabile, assimilabile. Qualcosa che, per lo stesso motivo, proprio perché subito dopo averla letta espressa in parole, risulta semplice da ricreare con la mente, è anche facile da riplasmare, in astratto, sull’esperienza individuale, in modo da farla propria.
Uno degli esempi preferiti di chi scrive si lega strettamente a un altro dei grandi valori della letteratura, si tratta dell’immagine del naufrago dantesco. Il passo, presente in Inf. I, è non solo una magistrale prova di come la pagina scritta sia il luogo d’amicizia di astratto e concreto per eccellenza, ma pure di come essa sappia svolgere la funzione primaria di avvicinare gli uomini gli uni agli altri e alla propria umanità. L’immagine del naufrago che si volta indietro a guardare la difficoltà superata è lo specchio di uno dei motivi principali della Commedia. Quello, appunto, della difficoltà superata. Le tre cantiche del Poema non sono altro, o meglio sono altro ma anche e primariamente, questo: l’idea che la difficoltà esista (Inferno), che si possa sbagliare e che, ciò che conti, alla fine di tutto, sia di riconoscere le proprie cadute e fare ammenda rispetto ai propri sbagli (Purgatorio) per essere ammessi alla meritata felicità (Paradiso).
Il grande discrimine tra le anime non è tanto quello tra dannati e santi, quanto quello tra dannati e anime purgatoriali. Gli spiriti infernali sono arrabbiati, non riconoscono i propri errori, li vedono ancora come giuste decisioni prese soprattutto, spesso o quasi sempre, in conseguenza di imprecisioni altrui. Le anime purgatoriali no, si sono già rese conto in vita di aver sbagliato, peraltro spesso compiendo errori ben più gravi di anime che si trovano nell’Inferno.
Torniamo però alla nostra immagine. Nel passo citato di Inf. I Dante è appena uscito dalla selva, che rappresenta un momento di grande difficoltà esistenziale, non ha ancora del tutto idea del lungo percorso che lo aspetta, sa che però sarà difficile. Il poeta si prende un momento per voltarsi indietro, come un naufrago appena uscito dal mare, per guardare ciò a cui è riuscito a sopravvivere.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Inf, I, vv. 19-27
Potremmo ridirla così. E allora si fece più debole e lieve quella paura che mi aveva avvolto il profondo del cuore, quella notte (quel periodo della vita) che trascorsi con tanta angoscia. E come il naufrago che col respiro affannato, scagliato dal mare sulla riva, si gira indietro e osserva le insidiose acque da cui è riuscito a scampare, così il mio animo, che non si sentiva del tutto al sicuro ma ancora, forse, di dover fuggire, si voltò indietro ad osservare quel passaggio che non lasciò mai passare nessun uomo che fosse ancora vivo (il passaggio dal mondo dei vivi al mondo dei morti, che solo Dante e pochi altri hanno potuto “attraversare” con biglietto di andata e ritorno).
Non è forse questa una dell’immagini più umane di tutta la Letteratura? Allo stesso tempo profondamente realistica e potentemente evocativa, totalmente condivisibile? Non che a tutti sia capitato di essere naufraghi, certo, ma che a tutti sia capitato, alle volte, di uscire da un periodo difficile e di ripensare, guardandosi come indietro, a ciò che si è superato per impugnare la forza e trovare il coraggio da mettere nelle sfide successive questo, sì, pare inoppugnabile.